Sono anni che celebriamo i funerali della tv generalista. Quella della prima repubblica, per de?nizione nazional- popolare e per tradizione democristiana, analogica e pedagogica.
Ma anche quella della neo-tv, piena seconda repubblica, insaccata di spot e frantumata dallo zapping. In apparenza i numeri del successo di Celentano (quasi il 50 per cento di share con punte del 70) sembrano risollevare la bandiera dellâ??orgoglio generalista.
E invece sono proprio quei numeri a dirci che qualcosa è cambiato.
Che unâ??altra tv è possibile. La tv normale arranca, sempre più simile a un ?usso in cui tutto è uguale a tutto.
Non lascia traccia, scivola via, non fa opinione. E la polemica politica (con poche eccezioni) diventa chiacchiera.
Quante volte ci capita di non ricordare chi ha detto cosa e su quale canale.
I numeri di Rockpolitik fanno impallidire la querelle quotidiana sui decimali di share tra Mentana e Vespa. I Valentino Rossi e Roberto Benigni dellâ??altra sera ridicolizzano le compagnie di giro delle ospitate ?sse.
Il tormentone blues sul dualismo rock/lento è diventato subito linguaggio quotidiano. «La legalità è rock» ha detto ieri il solitamente austero Cofferati. Il refrain â??Sognavo Che Guevara e câ??è Bordonâ?� è ormai uno slogan zapaterian-generazionale.
E Giulietti (Ds) chiede che lo show di Raiuno ospiti i metalmeccanici. Davanti a Celentano la politica è costretta a inseguire.
Rockpolitik ha fatto invecchiare le polemiche sulla satira buona e satira cattiva, ma anche gli esperimenti maldestri di politica-spettacolo (il ministro & la velina), e i tentativi di piantare una bandierina di destra o di sinistra in uno show tutto politico ma che straripa in mille direzioni. Le parole ormai lasciano il segno solo quando diventano evento, cerimonia, rituale collettivo. Quando escono dal Transatlantico.
E la tv riesce a bucare lo schermo.