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Il Senatur e il "Mafioso di Arcore"
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di Lorenzo Frigerio*

Il Senatur e il "Mafioso di Arcore"

L’estate del 2010 passerà agli archivi come una delle più litigiose degli ultimi anni della politica nostrana. Insulti, minacce, battute da osteria occupano televisioni e giornali che, nella speranza di più audience e copie vendute, le rilanciano con grande enfasi. Il tutto viene condito con gossip e rivelazioni che solleticano la morbosità dell’opinione pubblica.
Anche noi di Libera Informazione abbiamo deciso di dare un meritato spazio allo sport italico dell’insulto e dell’offesa. Lo abbiamo fatto però, andando a riesumare un episodio fondamentale nell’inaugurazione della nuova stagione, dove l’insulto è elemento programmatico ed imprescindibile delle migliori strategie politiche. Un salto all’indietro per capire dove siamo arrivati oggi e dove, forse, finiremo.

Il divorzio tra Lega e Forza Italia
Dicembre 1994: si consuma la rottura dell’alleanza tra Lega Nord e Forza Italia che aveva portato, pochi mesi prima, per la prima volta alla guida del Governo Silvio Berlusconi, imprenditore di successo, rimasto fino allora all’ombra dei socialisti. Bossi sfiducia il premier: si rompe una fragile intesa, frutto dell’accordo tra Forza Italia e Lega al nord e tra Alleanza Nazionale e Berlusconi al sud, che porta successivamente al governo tecnico di Lamberto Dini. Le elezioni del 1996 sono poi vinte dall’Ulivo guidato da Romano Prodi e bisognerà attendere il 2001 per rivedere Bossi e Berlusconi ancora alleati e vincenti in una nuova competizione elettorale.
Non ci interessano ora ricostruire dettagliatamente quegli anni, perché altri e ben più autorevoli colleghi hanno avuto modo di raccontare quel passaggio delicato nella vita delle nostre istituzioni repubblicane e non ci inoltriamo nel ginepraio delle diverse versioni.
Quello che ci interessa è che dal momento in cui nel 1994 Bossi si sfila dall’alleanza con Berlusconi, dalla Lega Nord parte un fuoco di sbarramento nei confronti del tycoon delle televisioni italiane, la cui virulenza farebbe impallidire le offese che leggiamo in questi giorni sui quotidiani.
In particolare, è l’house organ di partito, “la Padania” che si produce in una serie interminabili di ricostruzioni e invettive aventi per oggetto il passato poco limpido di Berlusconi, fino ad arrivare a formulare e rilanciare l’accusa più infamante, quella di collusione con la mafia.

In compagnia dei boss
Uno dei picchi più virulenti si registra tra giugno e agosto del 1998. Il 13 giugno viene strillato a tutta pagina un perentorio “Baciamo le mani”, insieme ad una galleria fotografica che sembra tratta direttamente dai mattinali delle questure. Una lugubre serie di dodici foto formato tessera, di cui nove mostrano i volti dei boss mafiosi Totò Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Pasquale Cuntrera, Pietro Aglieri, Michele Greco, Pippò Calò, Gaetano Badalamenti. Gli altri quattro, ritratti loro malgrado in questa triste compagine, sono uomini politici allora – e oggi – molto in voga: Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e Gaspare Giudice, deputato di Forza Italia, allora finito sotto i riflettori di un’inchiesta che mette a fuoco le relazioni tra mafia e politica in Sicilia e morto lo scorso anno.
Il messaggio è chiaro e verrà rinforzato da una serie di articoli successivi, da titoli e contenuti inequivocabili, con i quali si mettono in forse le origini delle fortune imprenditoriali dell’ex alleato di governo (“Soldi sporchi nei forzieri del Berlusca” è il titolo di un articolo del 2 luglio) e si rilanciano le accuse di rapporti con i capi di Cosa Nostra: “Silvio riciclava i soldi della mafia” titola la ricostruzione offerta il 7 luglio successivo.
Per giorni e settimane largo spazio viene dedicato alle inchieste di Palermo sulle collusioni tra mafia e politica e sulle bombe del 1993. Siamo ancora lontani dalle recenti acquisizioni processuali e dalle più puntuali inchieste giornalistiche che, negli ultimi mesi, hanno ricostruito lo scenario della trattativa tra Stato e mafia che sarebbe costata la vita a Paolo Borsellino.
Eppure, alcune delle questioni che solo in anni recenti saranno esplicitate, trovano in quei pezzi scritti con virulenza e astio una loro prima formulazione: le pagine del quotidiano leghista offrono spazio a quello che fino ora era indicibile a carico del Cavaliere.
L’ex alleato, l’imprenditore che sembra venuto dal nulla, l’uomo che ha irretito i dirigenti della Lega, in realtà è la testa di ponte per lo sbarco della mafia al nord del paese. A più riprese questo concetto viene espresso, nel corso delle tante corrispondenze che, pure se vengono indicate come effettuate a Palermo, in realtà vengono cucinate nella redazione milanese del giornale. Da notare che la gran parte di queste lunghi servizi risultano prive di firma. Una sorta di tutela preventiva contro eventuali azioni legali?
Inizia contemporaneamente il gioco degli insulti e delle allusioni ai rapporti di Berlusconi con i capi della mafia palermitana. Da “Berluscaz” a “Berlusocosanostra”, da “Lucky Berlusca” ad “il mafioso di Arcore”, solo per citare i soprannomi in cui si fa continuo e pesante riferimento ai legami con la mafia del presidente della Fininvest e del suo collaboratore numero uno, Marcello Dell’Utri.

“Cavaliere risponda!”
Il piatto forte viene servito l’8 luglio con un lungo articolo “Berlusconi mafioso? 11 domande al Cavaliere per negarlo”. Lo firma Max Parisi, allora direttore di Tele Padania ma soprattutto personaggio ambiguo e dai contorni incerti: un istrione di prima grandezza, che in quegli anni impazzava anche sulle tv locali lombarde per fustigare politica e costume degli italiani. Una meteora che, come apparve rapidamente, altrettanto rapidamente è scomparsa.
Parisi è perentorio nel suo incipit: “Presento al signor Berlusconi una serie di domande invitandolo pubblicamente a rispondere nel merito con cristallina chiarezza affinché una volta per tutte sia lui in prima persona a dimostrare - se ne è capace - che con Cosa Nostra non ha e non ha mai avuto nulla a che fare”.
E via con fuoco di fila di domande che fanno impallidire decisamente al loro confronto le domande poste in tempi più recenti da un altro quotidiano, “La Repubblica”. Ciascuna delle domande serve a porre in evidenza gli elementi di vischiosità nel curriculum personale e professionale di Berlusconi, tornando più di una volta ad adombrare i rapporti con l’organizzazione mafiosa siciliana.
Le prime quattro domande riguardano l’origine misteriosa dei capitali serviti a Berlusconi per edificare il quartiere di Milano2, alle porte del capoluogo lombardo. Parisi sfida il costruttore a rilevare il nome di chi, nel 1968, gli prestò la somma ingente – si parla di oltre trenta miliardi di lire dell’epoca – per rilevare l’area che sarebbe poi stata edificata e, inoltre, lo sprona a spiegare i mutamenti societari, con annessi aumenti di capitali per centinaia di miliardi di lire, occorsi successivamente all’interno delle imprese a lui direttamente riconducibili. Lo stesso chiarimento Parisi lo sollecita in riferimento alla Fininvest, nata dalla fusione di due società omonime, una di Milano e l’altra di Roma.
Con la sesta domanda, si affronta la questione della lunga teoria di scatole cinesi – dalla Holding Italiana Prima alla Holding Italiana Ventiduesima – che detengono il capitale delle Fininvest. Un complesso sistema, che sarebbe stato architettato dall’avvocato Umberto Previti, padre di Cesare, apparentemente per pagare meno tasse, garantendo il controllo alla famiglia Berlusconi. Nel ricondurre la gestione di molte di queste Holding ad una società fiduciaria – la Par.Ma.Fid ndr -  Parisi cala l’asso e chiede conto a Berlusconi: “non può non sapere che la Par.Ma.Fid. è la medesima società fiduciaria che ha gestito – esattamente nello stesso periodo – tutti i beni di Antonio Virgilio, finanziere di Cosa Nostra e grande riciclatore di capitali per conto dei clan di Giuseppe e Alfredo Bonn, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Gaetano Carollo, Canneto Gaeta e altri boss – di area corleonese e non – operanti a Milano nel traffico di stupefacenti a livello mondiale e nei sequestri di persona”.
Altrettanto ficcante e drastica la conclusione del giornalista che si rivolge ancora direttamente a Berlusconi: “Capisce che in assenza di una sua precisa quanto chiarificatrice risposta che faccia apparire il volto – o i volti – di coloro che per anni incasseranno fior di quattrini grazie alla Par.Ma.Fid., ovvero alle quote della Fininvest detenute dalla Par.Ma.Fid. non si sa per conto di chi, sono autorizzato a pensare che costoro non fossero estranei all’altro “giro” di clienti contemporaneamente gestiti da questa fiduciaria, clienti i cui nomi rimandano direttamente ai vertici di Cosa Nostra”.
Il settimo quesito riguarda il settore delle tv private dove il cavaliere si cimentò, subito dopo i primi successi in campo edilizio. Parisi chiede se quest’ultimo non ebbe mai dubbi sulla serietà e moralità della famiglia Inzaranto di Misilmeri, nuovi soci nell’avventura televisiva. Gli Inzaranto, non solo erano i proprietari di Retesicilia Srl, nel cui Cda dal 1980 siede anche Adriano Galliani, ma anche una famiglia organica a Cosa Nostra. Incidentalmente, Parisi ricorda che di Misilmeri era anche la famiglia Azzaretto, tra i soci fondatori della Banca Rasini, per la quale lavorava il padre dello stesso imprenditore, Luigi Berlusconi.
Altre tre domande riguardano l’origine degli aumenti di capitali di due società, l’Immobiliare Romana Paltano e l’Immobiliare Idra, riconducibili sempre al cavaliere e l’utilizzo per l’acquisto del calciatore Gianluigi Lentini dal Torino di una finanziaria, la Fimo di Chiasso, chiaramente riconducibile ai palermitani Madonia che se ne servivano come canale di riciclaggio, grazie a Giuseppe Lottusi, arrestato a Milano nel 1991.

Prestanome, questi sconosciuti
L’ultima domanda è argomentata da un ulteriore articolo, di spalla al pezzo principale, sempre a firma di Max Parisi: riassumendo vicende intricatissime e complessi intrecci azionari, l’autore arriva a chiedersi perché, nei passaggi imprenditoriali più importanti della sua carriera, Berlusconi abbia sempre fatto ricorso ad una serie interminabile di prestanome, in larga parte sconosciuti e privi delle qualità professionali, per tenere celata la titolarità delle imprese utilizzate e delle opere da lui portate a termine.
Una crepa in questo sistema si stava aprendo nel 1979 quando la Guardia di Finanza andò a chiedere conto e ragione a Berlusconi dei complicati giri di scatole cinesi e di prestanome utilizzati per Milano2. Dalla relazione di servizio emerge come ai finanzieri Berlusconi spiegò, mentendo ovviamente, di essere un semplice consulente esterno. Peccato che l’ispezione dei finanzieri non ebbe ulteriori risvolti. Da rilevare soltanto, come molti già sanno ma spesso e volentieri dimenticano, che il capitano della GdF, Massimo Maria Berruti, responsabile degli accertamenti svolti, si dimise poco dopo dalla Finanza e andò subito a lavorare per la Fininvest, diventando anni dopo deputato per Forza Italia.
A conclusione delle due pagine del giornale, arricchite da foto di Berlusconi, Dell’Utri, Mangano e della Banca Rasini, Max Parisi si rivolge direttamente al fondatore di Forza Italia per sollecitarlo ad un definitivo chiarimento. In caso contrario, non ci sarebbe spazio per accreditare la difesa di Berlusconi di una qualche possibilità di vittoria: “Se lei insiste a tacere su questi fondamentali riscontri che accrediterebbero immediatamente la sua sincerità facendo sprofondare in un abisso di menzogna tutti coloro l’accusano, lei di fatto dona il crisma dello verità a chi “ricorda” i suoi incontri milanesi con Stefano Bonante, a chi “rammenta” i suoi contatti finanziari con Francis Turatello, a chi “spiega” la presenza di Mangano a villa San Martino con ben diverse ragioni dalla cura delle stalle, a chi “parla” dì vorticosi giri di capitali di eroina nella Barica Rasinì e altro perfino di peggio”.

Umberto e Silvio, una sola cosa
Pensiamo di rendere un servizio importante alla memoria collettiva, offrendo la trascrizione completa degli articoli di Parisi e la scansione degli originali del quotidiano leghista.
Il sito internet del giornale è sparito, mentre è attivo un portale - http://www.padania.org – che, molto stranamente, non offre un servizio archivio, anche a pagamento, dove poter leggere queste e altre pagine pubblicate nel suo recente passato.
Potendo leggere per esteso la lunga serie di domande, ciascuno potrà rendersi conto di come le questioni che il giornale della Lega Nord poneva allora all’attuale presidente del Consiglio conservino ancora oggi tutto intatto il loro potenziale dirompente. A tutte quelle domande, ovviamente, Berlusconi non rispose mai. Né la Lega tornò  a sollecitare una risposta.
A distanza di anni quelle polemiche rientrarono, anzi sparirono del tutto, quasi come se non fossero mai esistite e l’intesa tra Forza Italia – oggi Popolo della Libertà – e Lega Nord è stata temprata da diversi passaggi elettorali vincenti.
Oggi Bossi e Berlusconi, si trovano a dover affrontare una nuova crisi. Questa volta sono soli, perché gli alleati di un tempo, Casini e Fini, hanno preso le distanze e, mentre scriviamo, non è dato di sapere quale esito avranno le consultazioni politiche di queste settimane, condite, come scrivevamo all’inizio, da insulti, rivelazioni e gossip.
Qualcuno dipinge Berlusconi come ostaggio del Senatur; a noi sembra piuttosto molto chiaro il contrario e, cioè, che il silenzio di oggi della Lega sulle questioni che lei stessa aveva posto in passato sia stato una delle contropartite per la rinnovata alleanza.
In tale direzione, per esempio, sarebbe interessante approfondire il salvataggio della Credieuronord, la banca voluta fortissimamente dall’establishment leghista e poi finita in bruttissime acque, da parte di Giampiero Fiorani, il banchiere che nel 2005, alla guida della Popolare di Lodi guida l’allegra combriccola dei “furbetti del quartierino”. Questa però è un’altra storia…

*da www.liberainformazione.it

 

 


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