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Articolo 21 - Editoriali
Ho avuto un insegnante che si chiama Renato Farina
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di Giorgio Santelli

Renato Farina è stato il mio primo insegnante di giornalismo. Non so se è un merito o un demerito. Ma a Monza, allâ??inizio degli anni â??80, fu il centro culturale Talamoni a fare una decina di lezioni di giornalismo curate proprio da lui. Ci andai, poco più che quindicenne. Fu lui il primo a raccontarmi la regola delle cinque â??wâ?, punto di partenza per ogni giornalista in erba.

Devo dire la verità. Mi piaceva quellâ??uomo pacioccone e brianzoleggiante. Successivamente, di lui, non ho condiviso nulla di quel che pensava e pensa. Ma, vuoi o non vuoi, resta sempre chi mi ha avviato alla professione. Di quelle lezioni di giornalismo ricordo quella sui titoli. Farina ci dava i compiti a casa. Noi li facevamo e poi venivano discussi con lui. Allâ??epoca io titolai: â??Eâ?? morto il nonno degli italianiâ?. Era un titolo per una sorta di coccodrillo dedicato a Sandro Pertini allora più vivo che mai. Prima di leggere il titolo che avevo composto e di farlo diventare parte di una lezione sui titoli ad effetto, chiese il silenzio in sala. Creò suspance prima di darci la fasulla notizia della morte di Pertini col mio titolo. E poi continuò la lezione. Per un quindicenne che cominciava a scrivere era un bel successo.

Renato Farina non lâ??ho incrociato più, fino allo scorso anno quando, a RaiSat Extra, cominciammo una striscia trisettimanale dedicata a lui e a Feltri, Titolo: Lâ??InFarinata, i fatti lievitati con lâ??opinione di Renato Farina. Pur condividendo ben poco di quel che diceva ho simpatizzato per quella trasmissione così strana e così fuori dalla concezione televisiva dei format di approfondimento e informazione. Insomma, una trasmissione bella perché proprio non condivisibile nella linea editoriale. Dunque, per me, una vera esaltazione del pluralismo. Bella perché le sue opinioni come quelle di Vittorio Feltri erano diverse da altre, comprese le mie e di questo nessuno faceva mistero.

Oggi ho letto, su Libero, la lettera di Renato Farina che difende una nuova figura che purtroppo non trova spazio nella professione: quella del giornalista-spia. Sembra brutta questa definizione: anzi, lo è. Ma questo Farina faceva. Passava notizie al Sismi e il Sismi le passava a lui.

Torno allâ??inizio degli anni â??80, a quelle lezioni di giornalismo. Farina ci avrebbe mai presentato quella del giornalista-spia come una delle possibilità della professione? Non penso, anzi. Sono convinto che non lâ??avrebbe mai fatto. E non può bastare oggi la giustificazione che "il mondo è cambiato" o che "stiamo facendo la quarta guerra mondiale contro il terrorismo".

I giornalisti devono fare i giornalisti, le spie le spie, i militari i militari e così via dicendo.

Per questo Renato Farina ha sbagliato.  Una fusione tra le due cose è quanto di peggio ci possa essere nella professione. Peggio delle veline fatte passare dai politici, peggio dei notiziari tutti pieni dâ??amore di Emilio Fede.

Renato Farina, da buon cristiano, chieda perdono. Noi, da buoni cristiani, saremo disposti a concederlo. E gli errori vengono perdonati anche dai laici. Ma deve avere il coraggio di dire che ha sbagliato e che lui non è lo stereotipo del buon professionista. Purtroppo nella sua lettera aperta a  Vittorio Feltri lui questo non lo ammette. Pentiti Renato, perché il perdono è possibile, e da paladino della cristianità lo devi sapere, solo se il pentimento è effettivo.


RENATO FARINA CI SCRIVE di Renato Farina - da Libero

I giudici mi hanno interrogato sette ore. Ho detto tutta la verità. Che è questa: sì, ho aiutato i nostri servizi segreti a difendere l'Italia dai terroristi. E adesso vi spiego perché e come

Caro Direttore, ti scrivo come si fa a un amico e a un padre. Se ritieni ancora degna la mia firma, magari per oggi e poi più, passa questa lettera ai lettori e ai colleghi di Libero. Dopo di che mandami a casa, se credi. Privatamente in queste ore a te - che eri ignaro dei miei casini - ho detto tutto e anche di più, ma è meglio fermare le cose sulla carta. Quando è cominciata la quarta guerra mondiale, quella scatenata da Osama Bin Laden in nome dell'islam contro l'Occidente crociato ed ebreo, ero animato da propositi eroici. Mi conosci come le tue tasche. La mia ambizione è sempre stata inconsciamente quella di Karol Wojtyla: lui morire nei viaggi, io sul fronte, magari in Iraq o in Qatar. Sono immodesto anche nel paragone. Vanità e protagonismo della mutua, incoscienza, ma credendoci, buttandomi tutto. Sapevi già delle mie avventure in Serbia sul filo del rischio, convinto di riuscire a raccontare meglio le cose se però risolvevo anche i problemi del mondo. Hai sempre cercato di farmi ragionare, di trattenermi. Poi di solito ti arrendi tu: non riesco a concepire altro modo di fare il giornalista. Mi ricordo la tua sfuriata di quando ero andato vicino all'Iraq senza dirti nulla, e in più scrivendo un articolo sui tagliatori di teste di un camionista bulgaro vicino al luogo del delitto. Hai sempre voluto salvarmi la vita, sono un disgraziato ma mi vuoi bene. Forse però volermi bene oggi vuol dire farmi cambiare mestiere. Pensaci, Vittorio. Anche stavolta, dal 2001 a oggi, anzi ieri (se c'è un domani dipende se mi credi), mi sono comportato alla mia maniera: alè, in battaglia.

Stavolta sono stato esaudito, ma così no, così è troppo pesante. Non mi sono rotto una gamba, non ho avuto bucato il polmone da una scheggia di piombo, ma è stato amputato il mio onore. Su quasi tutti i giornali e sugli schermi sono diventato l'immagine del tradimento dei lettori e della deontologia professionale, proprio lui, quel tizio grasso che fa tanto il moralista e tira fuori il nome di Dio ogni tre righe. Ipocrita di un Farina, anzi di "agente Betulla". Altro che giornalista o polemista. Solo un fantoccio nelle mani degli agenti segreti. Uno che depista indagini.

Sono reduce da sette ore di interrogatorio, ve lo vorrei raccontare, ma è stato segretato. Scriverò quello che posso, a te, Direttore e amico, non ho taciuto nulla. Ho letto nei tuoi occhi qualcosa di bellissimo, che mi dà coraggio e voglia di vivere, come già mia moglie, e scusa se ti metto dopo di lei, anche se mi hai definito il tuo "moglio". Ma so anche che un direttore ha dei doveri, non può permettersi di rovinare il suo vero figlio che è il giornale e di danneggiare la sua ciurma di redattori. Oltretutto Libero è una bandiera. Sporcarla è un insulto anche per i nostri meravigliosi lettori, che non meritano di essere offesi. Allora confesso. Ho dato una mano ai nostri servizi segreti militari, il Sismi.

Ho passato loro delle notizie. Ne ho ricevute. Ho cercato contatti persino con i terroristi, mettendo a disposizione le mie conoscenze ma anche il mio corpaccione per salvare qualche vita, e difendere i nostri fratelli uomini. Ti assicuro, e metto in gioco la salvezza della mia anima: non ho scritto su Libero una sola riga che non coincidesse con i miei convincimenti.

In ogni articolo dove ho difeso la nostra intelligence di Stato (Stato=Italia) e i suoi atti contro il terrorismo, ero ioproprio- io. Bello o brutto, ma me stesso. Ho combattuto con i miei articoli - mai con invettive, ma sempre argomentando - chi da anni non perde una giornata senza provare a demolire la credibilità delle istituzioni. Lo ritengo pericoloso per i figli dei miei lettori. Ho usato tutto, secondo me dentro i confini della legalità, di certo seguendo una scelta morale trepidante ma molto salda. Sono retorico lo so. Mi sto costruendo un monumento, ma tanto mi hanno già buttato giù preventivamente. Se avessero messo in giro la voce che ero una fonte del Kgb, si sarebbe alzato un coro di garantismo. Stare dalla parte dei nostri, giocandosela, merita invece la fucilazione immediata.

C'è stata un'eccezione (oltre alla tua), quella di Giuliano Ferrara. Mi ha dedicato parole di amicizia e stima straordinarie, mi ha capito perfettamente. � giunto a offrirmi un posto di lavoro, che è il massimo. Io gli ho detto, grazie, ma ho già il mio. Se tu, Vittorio, mi tieni. Ma se non mi tieni tu, smetto. C'è anche altro da fare nella vita, anche se mi spiacerebbe non scrivere più sbattendomi qua e là. Perché è chiaro: se nei miei lettori, quelli che mi stimano, e tra coloro che lavorano con me, leggendo la mia firma, ogni volta sorgesse un dubbio sulla mia lealtà, bisogna menare le tolle. I campi hanno bisogno di braccia, ma mi arrangerei meglio in cucina. Giulianone amatissimo mi ha chiesto di non fare la verginella e di rivendicare con orgoglio quanto ho fatto: cioè aver scelto con tutto me stesso a schierarmi dalla parte dell'occidente e di chi opera per tutelarlo.

Confermo. Non muovo un passo indietro rispetto alla mia decisione. Ma io sono io. Non sono del livello di Ferrara o di Graham Greene, che se ne impippano di una deontologia professionale che vieta di essere giornalisti e attenti ai servizi. In guerra non solo si può, ma si deve, se c'è in ballo il bene grande della nostra discendenza e tradizione. D'accordo. Ma alla maniera di Andreotti mi fido della magistratura, e accetto con serenità la decisione dell'Ordine dei giornalisti. Peraltro essere accusati di combutta con il Sismi è un po' diverso dalla comunella con la camorra o con il vendersi ai traditori.

Intanto continuo a confessare: non ho depistato un bel niente, non ho fatto il giornalista per essere una spia ben mimetizzata. Però un errore di certo l'ho fatto. Ho coinvolto in questa mia avventura di cinquantenne, un magnifico cronista come Claudio Antonelli. Il suo lavoro non ha alcuna macchia, ha fatto il suo mestiere e basta. Io ho le spalle larghe e sono vecchio. Ma lui è giovane, non dovevo fargli rischiare così la reputazione, senza che nulla sapesse di Sismi e affini. Gli chiedo scusa. Non sapevo di esporlo a dei colpi alla schiena. Me beccatemi pure, lui no. Allo stesso modo mi scuso con i colleghi redattori se si sentono traditi. La vostra stima è importante, non per lavorare ancora, ma proprio per tirare avanti

In questa guerra mondiale non sono salito sull'elicottero per raccontare dall'alto come i terroristi islamici seminano il terrore tra le popolazioni più o meno cristiane. Ma ho cercato di fare di tutto e di più per difendere questo nostro Paese e la sua civiltà cattolica. E dopo questo autoelogio, forse mi merito ancora di più il licenziamento. Ma voglimi bene lo stesso, con tutti i miei peccati.

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