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Noi, Cina e Usa tra Nobel e link
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di Federico Orlando

Noi, Cina e Usa tra Nobel e link

Oggi a Oslo il premio più importante del mondo, il Nobel per la pace,  sarà consegnato a una sedia vuota. Avrebbe dovuto occuparla il premiato, il dissidente cinese Liu Xiaobo, ma è trattenuto dai governanti comunisti di Pechino nella cella di qualche carcere. Condannato a 11 anni per attività che a noi democratici sembrano di libertà e ai socialimperialisti di dissidenza. Nel nostro mondo libero, come noi lo chiamiamo, un altro dissidente, Julian Assange, è in carcere a Londra, a causa di due donne svedesi che si autodefiniscono “stuprate”. Ma, secondo i più, a causa delle centinaia di migliaia di informazioni diplomatiche, che dall'allegro Dipartimento di stato sono finite nel suo web. Per carità, nessun paragone, problemi diversi quello di Pechino e quello di Washington. Da una parte una folle volontà di potenza, coi ben noti crismi dell'ideologia; dall'altra l'infinita vergogna per lo smacco e il timore di requisitorie alla Frattini. In mezzo, siamo noi uomini e donne dell'occidente e di altre parti del mondo: fra l'incudine di un'ideologia totalitaria che, ancora come ai tempi di Mao, agita il suo dogma  (ieri racchiuso nel libretto rosso, oggi nel contro-Nobel intitolato a Confucio); e l'aperta violazione del primo emendamento della Costituzione, che da oltre due secoli mette al primo punto dei valori occidentali la libertà di pensiero, di coscienza, di stampa, di comunicazione. Cioè tutto ciò che fa di noi l'antitesi speculare della Cina e di ogni altro regime totalitario o autoritario di sinistra e di destra, immanente o trascendente.
    Ieri Europa titolava: “Siamo tutti norvegesi. O no?” Noi in Italia, certamente, lo siamo. Oggi il nostro ambasciatore sarà alla cerimonia di Oslo, onorerà la sedia vuota, ascolterà un pensiero di Liu Xiaobo letto dall'amatissima  Liv Ullmann. Non  lo è, invece, l'amico di Berlusconi, Putin. Il suo ambasciatore a Oslo ha accolto, credo senza grande sforzo, l'intimazione di Pechino a disertare la cerimonia. In Europa solo altri tre paesi lo imiteranno: l'Ucraina, la Bielorussia e, grazie al furore antiserbo degli eurobosniaci, la Serbia, appunto. Saranno in compagnia del fior fiore delle democrazie del mondo: Kazakistan, Colombia, Tunisia, Arabia Saudita, Pakistan, Iran, Iraq, Vietnam, Afganistan, Venezuela, Filippine, Egitto, Sudan, Cuba, Marocco. Se la Cina, col no ad Oslo e col contropremio Confucio, voleva render noto l'elenco dei suoi sodali, c'è riuscita. E a noi non dispiace. Ci fu già un'altra volta , nel corso della nostra vita, in  cui democrazie e dittature di tutto il mondo fecero l'appello dei rispettivi alleati.
    Ma non ci si può limitare a ricordarlo. E dimenticare che sulla bandiera delle libertà atlantiche che portarono gli americani a combattere con le democrazie europee c'era scritta, per prima, la ricordata libertà di parola. Per questo, proprio perché non vogliamo essere cinesi né di Pechino né di Roma (dove le mummie Rai puniscono il capostruttura di Fazio e Saviano non avendo potuto imbavagliare i conduttori), chiediamo la solidarietà politica non tanto per il signor Assange, ma  per quel che ha fatto: e cioè pubblicare, come da sempre fanno i giornalisti d'inchiesta dei giornali liberi, i documenti, le prove, di cui vengono in possesso. Documenti e prove attinenti a fatti di rilevanza pubblica, ben oltre le apparenze del gossip. Come ha scritto “Articolo 21”, responsabile della rivoluzione di Wikileaks è solo la perversa idea frattiniana che la diplomazia delle democrazie abbia bisogno di tener coperte le follie e gli affari, a tutti noti, dei Re nudi del mondo. Bisogna che quei Re si rivestano, con la pergamena delle costituzioni occidentali e non con seta o similseta cinese, magari colorata a Tien Anmen. Ecco un tema che potrebbe trovar spazio domani a piazza San Giovanni, così, magari per cominciare a parlare della nostra weltanshauung, dopo i mercati delle vacche e le guerre delle secchie rapite, o poltrone che  siano.       


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