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Le frequenze digitali e la battaglia per la democrazia dell’informazione
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di Vincenzo Vita*

Le frequenze digitali e la battaglia per la democrazia dell’informazione

Torna in scena la vicenda delle frequenze digitali. Un emendamento formulato dal partito democratico al decreto 138 (la orrenda manovra economica) riapre un caso di scuola del conflitto di interessi. Si tratta dell’ assegnazione dei multiplex digitali ( 5 Dvb-t, ricezione televisiva ad antenna fissa e  uno Dvb-h, ricezione mobile) per il campo televisivo.
Dopo uno scontro interno intenso ma scarsamente pubblicizzato, l’ Autorità per  le garanzie nelle comunicazioni due anni fa varò a maggioranza una delibera decisamente subalterna agli interessi del monopolio mediatico di Mediaset. Infatti, venne scelta l’ innocua procedura del “beauty contest”, vale a dire la stessa che usa il mondo finanziario per l’ immissione dei titoli sul mercato, affidandola  alle agenzie più affermate. Nel broadcasting ciò significa Rai, Mediaset….a seguire La7,  a fatica Sky. E pensare che la Commissione europea aveva a suo tempo avviato la procedura di infrazione contro l’ Italia proprio per i meccanismi di transizione dall’ analogico al digitale, fotocopia della concentrazione nei media degli ultimi trent’ anni italiani. Per non dire dell’ incredibile scelta di sancire il rapporto “uno a uno” tra una vecchia rete analogica e un “mux” digitale, che di programmi ne contiene come minimo quattro. Insomma, un bis ex post della legge Mammì del ’90, quella che diede avvio alla berlusconizzazione dell’ etere, grazie al regalo di tre canali nazionali. Quello digitale  (sostantivo e non aggettivo di televisione) poteva essere il territorio di un vero cambiamento: di stili, di contenuti creativi, di linguaggi. La post-televisione. A causa della profondità del conflitto di interessi proprio il digitale da noi sta diventando  per converso l’ occasione sprecata del nuovo secolo, l’ epifania della televisione omologata e sotto padrone.
A dimostrazione della strumentalità della storia, sta la decisione della stessa Agcom di scegliere al contrario la più giusta via dell’ asta competitiva per la parte della “transizione” che riguarda le telecomunicazioni (dividendo esterno). E la legge di stabilità del 2010 fissò in almeno 2,4 miliardi di euro le entrate potenziali della gara, già lievitate a 3,1 con i rialzi.
Torniamo all’ emendamento, che vede il consenso anche dell’ ‘ Italia del valori e del Terzo polo, nonché di magna pars della società dell’ informazione. Si propone semplicemente di adottare il metodo dell’ asta anche per la televisione nazionale, il cosiddetto dividendo interno. Se ne ricaverebbe non meno di un miliardo di euro, o forse anche due, sempre con i rialzi. Non solo. Si potrebbe riaprire  la questione delle emittenti locali, corteggiate (con un certo successo) dalla destra fino a quando molte di loro si sono prestate a fare la periferia reazionaria della cittadella imperiale, per poi essere prese a calcioni quando il loro ruolo è stato ritenuto esaurito. Del resto, l’ attuale vergognosa legge elettorale, ha abrogato il peso del “locale”, come è noto. E, non per caso, sono stati requisiti in modo autoritario nove canali per regione. Il  che significa la morte di numerose, numerosissime, stazioni. L’ asta riacquisirebbe al bene pubblico, per essere riassegnato, il lotto di frequenze eccedenti delle televisioni nazionali. Vale a dire i “doppioni”, figli dell’ era allegra del far west.
Insomma, la battaglia per una democrazia dell’ informazione di base può e deve rianimarsi partendo proprio dal punto cruciale della proprietà pubblica ( non privata) delle frequenze. Queste ultime sono un bene comune, il cui affidamento al privato richiede una gara corretta ed un’ adeguata riserva per l’ emittenza locale e per quella non profit.
Un emendamento non fa primavera, certo. Ma introduce un particolare che può diventare generale. A maggior ragione se viene a modificare un provvedimento -il decreto finanziario anticrisi-  che taglia vorticosamente le conquiste dello stato sociale. Soprattutto quando c’è una crisi è decisivo capire chi ne paga le conseguenze. E chi ha preso di più finalmente  restituisca un po’ alla comunità. E’ un frammento della giustizia redistributiva.

* Pubblicato su "Il Manifesto


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