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Articolo 21 - ESTERI
C’era una volta Radio Londra...
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di Maurizio Del Bufalo*

C’era una volta Radio Londra...

La notizia è di quelle che ti lasciano senza parole: la RAI chiude 6 sedi all’estero, alcuni degli ultimi punti di connessione della già piccola rete informativa di cui l’Italia era promotrice. Un firmamento che perde le sue stelle, una grande azienda che si spegne, come un vecchio televisore, con un ronzio di valvole e un lampo. Poi il silenzio.
E’ inaccettabile (ma quante cose balorde abbiamo dovuto digerire in questi anni barbari?) che un Paese così ricco di scrittori, giornalisti, autori di cinema e di spettacolo, possa accettare di dipendere da altri circuiti informativi, proprio adesso che le primavere arabe e i social network ci hanno fatto vedere cosa vuol dire dar voce ai bisogni delle persone, ora che un cellulare non si nega a nessuno e che l’informazione è il potere. Abbiamo bisogno di una RAI più presente nel mondo, più viva, non muta ed assente, lontana dalle mediocrità della politica nostrana.
Vorrei che qualcuno mi spiegasse perché mai, in un continente grande come l’Africa, non potremo più avere nemmeno un osservatore che racconti, con la nostra lingua, il dolore di Dadaab, di piazza Tahrir, del Saharawi e del Darfur e ci spieghi da dove arrivano i profughi che sono ormai nelle nostre città e nelle nostre campagne, di quanto sia lunga la loro odissea e quanto disumano il trattamento che li ha spinti verso le coste del Bel Paese. Parlo da promotore di un festival internazionale di cinema documentario che cerca di portare, da anni, uno sguardo cosmopolita nelle terre del meridione che, a dispetto del mediocre localismo di chi l’ha governato finora, è al centro del Mediterraneo e delle rivoluzioni che stanno stravolgendo il mondo arabo. E quindi mi domando: non è pazzesco chiudere l’osservatorio africano di Nairobi che ci ha aiutato a capire la “vera” politica estera che il nostro Paese ha praticato negli ultimi anni, quella che da un lato esportava rifiuti tossici e dall’altro rigettava a mare i profughi che fuggivano attraverso il Sahara, appoggiando di fatto le dittature del Corno d’Africa e le collusioni con le mafie internazionali? Saremo sempre costretti a dover ascoltare di nascosto radio Londra, pardon, la BBC o Al Jazeera, per poter essere cittadini del mondo, un po’ più consapevoli e informati di quello che ci vorrebbero i nostri  governanti? O è proprio questo che si vuole, la globalizzazione dell’informazione, dopo quella finanziaria, una dittatura in cui poche agenzie centrali spiegheranno a tutti l’unica verità possibile? Penso a Ilaria Alpi e al suo sacrificio, mi rincresce usare questo nobile ricordo, ma è giusto rammentare il coraggio dei nostri giornalisti più liberi che ci ha aperto gli occhi quando eravamo lontani dalle verità. Noi stessi abbiamo attinto a piene mani, come festival, all’archivio dei servizi della RAI dall’estero, dagli anni 70 ad oggi, perché riteniamo che siano la fonte più qualificata per conoscere i fatti e parlare a chi è giovane oggi.
E’ vero, oggi c’è la rete, il web, ma non è per tutti, la tv pubblica rimane ancora seguitissima ed è la prima sorgente dell’informazione del cittadino medio. La rete non ha annullato, ma solo modificato, la professione del giornalista ed ha acuito la necessità di saper “leggere” le notizie e sottolineare i fatti, soprattutto quelli catturati all’origine, senza mediazione. E questo ha un costo non evitabile, serve a rivelare gli equilibri che sfuggono a chi osserva gli eventi da casa o, peggio, da una inamovibile poltrona nei palazzi del potere, serve a cercare le verità nascoste, ad aiutarci a nutrire i dubbi e le coscienze critiche. Si può ridurre un servizio informativo, migliorarlo, ma non cancellarlo, ne va della credibilità dell’azienda pubblica e del Paese che rappresenta. Acquistare informazione prodotta da altri, sempre e comunque, è un’inammissibile alienazione del proprio futuro.  
Penso anche alla  sede di Buenos Aires, altrettanto strategica e critica per il ruolo che si apprestano a giocare i paesi sudamericani nel rapporto con l’Europa, soprattutto l’Argentina con il suo 52% di popolazione di origine italiana. Tutta questa potenzialità sembra lontana da una Italia che ha lasciato marcire la sua politica estera fino al punto da abbandonare i suoi emigranti, da non contare più nulla nel Mediterraneo dove eravamo l’ago della bilancia. Un’Italia che ha cancellato il suo pur discutibile apparato di commercio estero perché troppo costoso, azzerandolo in pochi mesi, un’Italietta che ha distrutto il bilancio della cooperazione internazionale, scegliendo di finanziare missioni di pace militari che si sono rivelate costosissime in termini di danaro e vite umane, dimenticando che i cooperanti sono ambasciatori di pace e costruttori di ponti, portatori di culture alternative e punti di ascolto privilegiati. Basta guardare ai progetti degli anni 80 per capire che questo continuo prendere le distanze dai Paesi emergenti, ha tagliato le gambe alle nostre giovani generazioni, alle imprese come ai ricercatori e alle associazioni, preparando nuove valigie di cartone. In un mondo sempre più aperto agli scambi tra esseri umani, noi ci siamo chiusi in casa, e continuiamo a farlo, in nome del pareggio di bilancio.
Chiudere le sedi RAI nei Paesi strategici è un ulteriore segnale di regressione culturale, un rifiuto a voler vedere dove va il mondo, depotenziando la nostra presenza all’estero. Confido che questa decisione possa essere cambiata, va rivista per evitare di ridurci ad una colonia di consumatori di pillole informative. Se c’è da migliorare si può, ma occorre intelligenza, non servono le forbici. Ma se ciò non avverrà, se si affermerà questo modo drastico di affrontare la regressione culturale ed economica del nostro Paese, non ci saranno scelte eque che tengano, siamo condannati a rimanere provincia.
Eppure a me sembra che ci sia una società civile che sta reagendo e chiede un servizio pubblico più efficiente, è una parte di Italia che pretende un buon governo della cosa pubblica che l’aiuti a internazionalizzare la propria cultura e le proprie competenze, che l’accompagni nel mondo. E’ gente come noi che investe il suo tempo nel costruire reti senza frontiere che hanno bisogno di professionalità nuove, di circuiti informativi sempre più accessibili per rilanciare l’immagine dell’Italia, la creatività della sua gente.
Sarebbe il caso di ascoltarla, aiutarla, non di continuare a chiuderle porte e finestre.

* Coordinatore del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli

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Appello alla RAI: Non chiudete quelle sedi!

 


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