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Articolo 21 - Editoriali
Primarie sì, primarie no, primarie ma finte
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di Fernando Cancedda

Chissà se gli autori di “Italia sì, Italia no”, “Elio e le storie tese”, hanno in mente una canzone su questa ennesima inquietudine del popolo democratico. Di canzonature, per la verità, ce ne sono anche troppe, non ultima un breve saggio sulla materia - di quelli scritti “in punta di penna” come si diceva un tempo - di Filippo Ceccarelli sulla Repubblica (“Il mito del voto dal basso. Da ancora di salvezza a psicodramma politico”).
Il ritornello non è nuovo, ma pur sempre orecchiabile: “...Sono ormai cinque anni, e a ripensarli in termine di primarie – pretese, negate, ritardate, digerite, svuotate, eccetera – si è colti da un senso di sfinitezza che rimbalzando in principio da Prodi e Veltroni per poi irradiarsi da Bersani a Vendola fino alle innumerevoli competizioni intestine a livello locale, ecco, questa esausta percezione prende la via di un solenne mal di capo...”.
Che si esprima così il corsivista di un quotidiano mi sembra normale e perfino giusto. Il guaio è che a ostentare il medesimo mal di capo  sono  autorevoli esponenti del gruppo dirigente del PD, indifferenti alla circostanza che così facendo manifestano insofferenza anche per uno Statuto da loro, appena due anni fa, approvato e controfirmato. Insomma, si comportano come se le primarie fossero un parto della fantasia filo americana di Walter Veltroni e non invece un tratto identitario  essenziale di quello che doveva essere il partito “nuovo”. Perché? E' quello che provo a spiegare.

Se è vero che i principi fondamentali sono scritti all'inizio di ogni Costituzione, ecco cosa si legge nei primi due commi dell'articolo 1 dello Statuto del Partito democratico:
1. “Il Partito Democratico è un partito federale costituito da elettori ed iscritti, fondato sul principio delle pari opportunità, secondo lo spirito degli articoli 2, 49 e 51 della Costituzione.
2. Il Partito Democratico affida alla partecipazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori le decisioni fondamentali che riguardano l’indirizzo politico, l’elezione delle più importanti cariche interne, la scelta delle candidature per le principali cariche istituzionali”.
All'origine delle primarie non c'è dunque la fantasia filo americana di Prodi o Veltroni, ma lo statuto e, prima ancora l'articolo 49, della Costituzione. Ero ancora un ragazzo quando ne sentii parlare per la prima volta a Firenze da uno dei padri della Repubblica. Già allora, negli anni '50, Piero Calamandrei si rammaricava per la mancata attuazione di questo articolo della Carta che aveva collaborato a  dettare.
Qualche anno fa anche il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida richiamava alla opportunità di regolamentare, con una “legislazione più incisiva...certi aspetti della vita e dell'attività dei partiti. Allo scopo di meglio garantire, in conformità all'articolo 49, che i medesimi svolgano la funzione, costituzionalmente prevista, di strumenti democratici a disposizione dei cittadini per realizzare la loro partecipazione politica.
“In particolare - precisava Onida - potrebbero essere disciplinate le attività dei partiti che incidono direttamente sulla formazione di organi costituzionali o sull'esercizio di funzioni pubbliche, come, tipicamente, la selezione e presentazione delle candidature per le elezioni”.

Ciò vale in particolare per l'attuale momento storico, perché fino a una decina di  anni fa i partiti “storici” formatisi nell'immediato dopoguerra erano sufficientemente solidi e strutturati per giustificare la tendenza prevalente a lasciare che  fossero regolati dal diritto comune delle associazioni non riconosciute.
Oggi si è ridotta notevolmente l'influenza degli apparati di partito sugli orientamenti e sulla attività degli organi costituzionali, parlamento compreso. E tuttavia la selezione delle candidature resta saldamente nelle mani di gruppi dirigenti assai meno legittimati di quelli dei partiti del passato. Con modalità ancor più “verticistiche” dopo l'entrata in vigore della “porcata” elettorale di Calderoli.
Nessuno si aspetta, con l'aria che tira, una legge  che preveda primarie tra i cittadini per le candidature di tutti i partiti, come pure ipotizzavano seriamente, un paio d'anni fa, gli ulivisti di Prodi e non solo. Ma almeno si smetta di continuare a distruggere quel prezioso lavoro di progettazione che, tra resistenze e difficoltà di ogni sorta, aveva portato solo due anni fa ad un compromesso accettabile sul coinvolgimento della società civile.
Da chi vengano le resistenze è noto: dagli stessi che accettano  primarie “finte” finché servono a incoronare i candidati pre-scelti; dagli stessi che continuano, mantenendo correnti o “fondazioni” che dir si voglia, a indirizzare dall'alto tutte le scelte importanti, a livello nazionale o locale; dagli stessi, infine, che predicano la necessità di una riforma della legge elettorale ma, al dunque,  rinuncerebbero malvolentieri al controllo diretto sulle candidature.
Resistenze che persistono nonostante che la crisi di credibilità dei partiti abbia raggiunto livelli allarmanti, sia  per il distacco crescente tra paese reale e giochi di palazzo, sia per quelle che il presidente Napolitano proprio oggi chiama le “amare cronache quotidiane della politica”.
“Nessuno ha mai capito a che servano le primarie”, scriveva ieri il collega Ceccarelli. Ma forse questa ignoranza dipende anche da noi giornalisti se è vero che nel TG regionale del Lazio come  nella cronaca romana del  suo giornale, oggi si parla  di “primarie del PD” a (s)proposito del referendum sulla formula uno all'EUR.
E a che servono le primarie è spiegato oggi stesso su Repubblica dall'editoriale di Tito Boeri (“Il Paese senza politica”), anche se  non si scrive direttamente di primarie ma si propone di “ridurre drasticamente il numero dei parlamentari, ridisegnando le circoscrizioni in modo tale da aumentare la competizione fra i partiti”.
Che c'entra? C'entra, perché una riforma del genere è destinata a incontrare gli stessi ostacoli, ad avere gli stessi avversari non dichiarati. C'entra perché avvicinare i cittadini ai loro rappresentanti vuol dire rafforzare, insieme alla democrazia, la consapevolezza e il controllo degli elettori. Una ricerca di www.lavoce.info, citata dallo stesso Boeri, rivela che “i collegi in cui l'esito del voto è più incerto mandano in Parlamento deputati con maggiori esperienze amministrative e mediamente più istruiti di quelli dei collegi 'sicuri', dove invece dominano i funzionari di partito, quelli che hanno svolto l'intera carriera nella politica di professione”.

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