di Stefania Limiti
Il caso non ha fatto ‘notizia’ ma riguarda la libertà di stampa e il futuro di una informazione non imbavagliata da norme ambigue. Il tutto intrecciato con alcuni segreti della Repubblica: un mix che non può passare inosservato. Il fatto è il seguente: il giornalista Renzo Magosso si è beccato una condanna per diffamazione in primo grado da un tribunale di Monza per aver fatto un’intervista ad un ex sottoufficiale dei Carabinieri, Dario Covolo, nome in codice ‘Ciondolo’. Costui aveva sostenuto nella conversazione con Magosso, pubblicata poi su Gente del 17 giugno 2004 - allora diretto da Umberto Brindani - di aver presentato sei mesi prima dell’omicidio del giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi, un rapporto circostanziato per informare i suoi superiori, il generale Alessandro Ruffino, allora capitano, ed il defunto generale Umberto Bonaventura, anch’egli ai tempi capitano, del progetto di uccidere Tobagi ma loro avevano reagito invitando il loro sottoposto ad occuparsi di altro. Tobagi fu ammazzato il 28 maggio del 1980 nel luogo che aveva indicato Ciondolo le cui accuse sono effettivamente pesantissime. Tuttavia, Dario Covolo le ha ripetute davanti ai giudici di Monza, confermando l’esattezza del resoconto di Magosso. Eppure, niente da fare: per quei giudici Magosso avrebbe agito con superficialità, non verificando l’esattezza delle confidenze che aveva raccolto e non riferendo di “una diversa verità ufficiale”. Il suo scopo, secondo quei magistrati, era solo quello di firmare uno scoop: possibile che non siano valse a nulla le conferme del diretto interessato? La condanna di Magosso ha il sapore preoccupante per chi fa il mestiere di giornalista e per chi vuole leggere notizie e non veline. Peraltro, anche la giurisprudenza in materia d’informazione è piuttosto chiara. Nel 2001 le sezioni unite penali della Cassazione hanno confermato la non punibilità del giornalista che esercita il suo diritto/dovere all’informazione riferendo affermazioni di rilevanza sociale. Come se nulla fosse: il giudice Ilaria Maupoil e, prima di lei, il pm Alessandro Pepè, hanno insistito sulla colpevolezza di Magosso. Una condanna che non suona proprio come un invito a fare attenzione, quando come una vera intimidazione per gli operatori dei media: attenti a non mettere il becco in faccende calde. Solo così si può leggere la sentenza di Monza. Perché il caso Tobagi è una di quelle storie italiane che resta avvolta dal mistero: perché non fu salvato? Fu solo scarsa accortezza o ebbe un ruolo la P2? Dopo la drammatica uccisione di quattro brigatisti, freddati nel covo di via Fracchia a Genova, faceva comodo una ripresa del terrorismo? Sono domande inquietanti, come tante altre che riguardano il nostro passato. Nel suo libro-rivelazione "Le carte di Moro, perché Tobagi" – ed. Franco Angeli, 2003, scritta a quattro mani con il capitano Roberto Arlati, ex membro dell’antiterrorismo di Milano – Magosso affronta anche la vicenda dell’inquietante cancellazione delle informazioni fornite da "Ciondolo" sulla morte di Tobagi e delle pesantissime accuse di Bettino Craxi nei confronti dei Carabinieri, colpevoli, secondo lui, di aver taciuto "una nota informativa che annunciava l'organizzazione dell'assassinio del giornalista del Corriere della Sera”. Fu l’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro a riferire in Parlamento il 19 dicembre del 1983 l’aspetto più inquietante di tutta la storia: Scalfaro diede notizia dell’esistenza della nota informativa di Ciondolo presso gli atti del reparto operativo del Gruppo dei Carabinieri di Milano nella quale Dario Covolo riferiva il 13 dicembre del 1979 del progetto di uccidere Tobagi esattamente nel luogo in cui fu poi ucciso qualche mese dopo. Non solo: Scalforo aggiunse che... “L’attività dell’Arma dei carabinieri in tutte le vicende riferite [quelle relative all’informativa-Ciondolo, NdA] è attività di polizia giudiziaria che implica, come tale, il dovere di riferire in via esclusiva all’autorità giudiziaria dalla quale dipende”. Un atto di accusa gravissimo: soprattutto perché non è rimasta traccia dell’informativa resa nota da Scalfaro e fatta sparire probabilmente secondo un modulo nel quale era esperto, ad esempio, l’Anello, il servizio segreto clandestino specializzato nel fare pulizia di carte e persone troppo ‘esplicite’. (Il libro di Magosso e Arlati è divenuto assai noto per il racconto di una giornata particolare, durante la quale furono ritrovate le carte di Aldo Moro in Via Monte Nevoso: l'ex ufficiale dell'antiterrorismo Arlati - si è messo a vendere lavatrici per vivere dopo il congedo - racconta che dai documenti scoperti furono sottratte molte pagine. Arlati consegnò tutto al capitano Bonaventura, che pretese il ‘tesoro’ senza accettare contestazioni perché, disse, dovevano essere portate in visione al generale Dalla Chiesa ma, quando lo riportò indietro, dice Arlati a Magosso, il pacco era “assottigliato al tatto”).
Tutte queste pesanti eredità del passato sono tornate in aula il 14 ottobre, nel Tribunale di Monza, dove ci si augura che non sia scambiata la verità con la condanna ad un giornalista. Speriamo anche che il ministro della Giustizia, passato il Lodo, risponda con sollecitudine al deputato del Pd Paolo Corsini, ex capogruppo dell’Ulivo nella Commissione parlamentare sulle Stragi, che ha presentato una dettagliata interrogazione parlamentare sul caso Tobagi-Magosso, riferendo anche nuove rivelazioni che confermano la scomoda verità sull’assassinio del giornalista del Corsera.
Aggiornamento e approfondimenti:
Magosso, peraltro, ha riferito in aula una circostanza inedita e clamorosa: venti giorni dopo il delitto, nel giugno 1980, il generale Dalla Chiesa incontrò l’allora direttore del Corriere Franco di Bella e gli disse chiaramente che a uccidere Tobagi era stato Marco Barbone, figlio di un alto dirigente dell’Editoriale. Di Bella chiese a Magosso, che lavorava al quotidiano L’Occhio, e che seguiva le indagini sul terrorismo, di accertare quanto ci fosse di vero. Magosso si rivolse all’allora capitano Bonaventura che confermò la circostanza, aggiungendo: «Abbiamo la certezza, la notizia arriva da Varese». Va chiarito che Rocco Ricciardi, l’informatore citato da Dario Covolo, abitava proprio nel varesotto. Ebbene, il 25 settembre, a poche ore dall’arresto di Barbone, Magosso scrisse sull’Occhio, il tabloid della Rizzoli diretto da Maurizio Costanzo, che era stato arrestato il killer di Tobagi e fece esplicito riferimento a Varese. Solo il 10 ottobre, «in maniera inaspettata e clamorosa», come riferiscono gli atti processuali, Barbone confessò di aver ucciso Tobagi. Magosso dunque non si era sognato nulla. E questa sembra proprio la riprova che nella vicenda ci sia ancora moltissimo da chiarire.
Barbone venne prontamente scarcerato, grazie alla collaborazione con i magistrati, che portò all’arresto di decine di suoi ex compagni. La sua ex fidanzata non venne neppure inquisita, nonostante avesse partecipato al progetto di sequestrare lo stesso Tobagi. Ora il processo contro il giornalista Magosso rischia di trasformarsi, al di là della volontà dei giudici, nella identificazione di un capro espiatorio che sia di monito per chi volesse insistere nel non rassegnarsi a una verità di comodo. L’Ordine dei giornalisti e la Federazione della stampa, il ministro della Giustizia, le forze politiche e i tanti sedicenti garantisti, di destra e di sinistra, non hanno nulla da dire?
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“Tabloid” n. 7/8 del 2004
Nel Parlamento due ministri e due verità sul delitto
Camera dei deputati, 19 dicembre 1983
Scalfaro legge una relazione di servizio di un
un sottufficiale dell’Arma del 13 dicembre 1979:
“E’ in programma un attentato o il rapimento
di Walter Tobagi...Tobagi è un vecchio obiettivo
delle Formazioni comuniste combattenti (Fcc)”.
Dal libro “Le carte di Moro, perché Tobagi” di Roberto Arlati e Renzo Magosso (Franco Angeli 2003) riprendiamo un passaggio (pagine 142/143) che riguarda la risposta 19 dicembre 1983 del Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro nell’aula di Montecitorio a una interrogazione sul delitto Tobagi. Era stato Bettino Craxi (primo ministro dal 4 agosto 1983) ad accusare: “Qualcuno ha taciuto una nota informativa che preannunciava l’organizzazione dell’assassinio di Walter Tobagi”. Questa la risposta di Scalfaro:
“Agli atti del reparto operativo del Gruppo carabinieri di Milano 1 esiste l’originale di una relazione di servizio redatto da un sottufficiale dell’Arma (“il brigadiere Ciondolo”, ndr) il 13 dicembre 1979 nella quale si legge: “Secondo il postino, il...(segue il nome di un altro confidente) e gli altri avrebbero lasciato il proposito di compiere azioni in Varese ma avrebbero in programma un’azione a Milano. Il ....non ha lasciato capire pienamente quale possa essere il loro obiettivo ma ha riferito al postino che si tratta di un vecchio progetto delle Formazioni comuniste combattenti (FCC). Per quanto riguarda l’azione da compiere qui a Milano e la zona nella quale il gruppo sta operando il postino ritiene che vi sia in programma un attentato o il rapimento di Walter Tobagi, esponente del Corriere della Sera. La zona in cui il gruppo sta operando dovrebbe essere quella di piazza Napoli-piazza Amendola-via Solari dove il Tobagi dovrebbe abitare. Il Tobagi è un vecchio obiettivo delle Formazioni comuniste combattenti...”. Dagli accertamenti svolti il postino di Varese si identifica con un certo Rocco Ricciardi. Va rilevato che l’attività dell’Arma dei carabinieri in tutte le vicende sufferiferite è attività di polizia giudiziaria che implica, come tale, il dovere di riferire in via esclusiva all’autorità giudiziaria dalla quale dipende”.
La precisazione è sconvolgente. E’ l’ultima frase a far sensazione. Scalfaro mette in luce che i carabinieri debbono informare i magistrati. “Questa puntualizzazione – scrivono Arlati e Magosso – appare, alla luce dei fatti, come un rimprovero. Lascia implicitamente intendere che i carabinieri dell’Antiterrorismo di Milano non hanno detto tutto ai magistrati milanesi”.
Camera dei deputati, 18 giugno 2004
Giovanardi: “Nessuno ha indicato gli assassini di Tobagi alla polizia”
Milano, 18 giugno 2004. ''Nessuno ha mai indicato a polizia e carabinieri i nomi di chi sarebbero stati gli assassini. Ci mancherebbe altro che fosse emersa una circostanza di questo tipo''. Così si è espresso al question time il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi, riferendosi all'omicidio di Walter Tobagi.
''A distanza di 24 anni - aveva affermato poco prima il parlamentare Verde Marco Boato - sono ricorrenti gli interrogativi sulle gravi omissioni da parte di ufficiali dei carabinieri dell'epoca che nascosero e non diedero seguito a una
nota informativa preventiva redatta da un sottufficiale del nucleo antiterrorismo. Già nel dicembre '79, sei mesi prima dell'omicidio, i nomi dei terroristi che stavano progettando l'assassinio di Tobagi, erano noti, ma nulla, assolutamente nulla venne fatto per impedirne la morte
''Il Governo - ha aggiunto il ministro sempre al question time - non ha potuto far altro che attingere dalla Procura di Milano, dai magistrati, con le dichiarazioni di allora e di oggi, la loro volontà di non spiegare nuovamente cose che hanno già chiarito in tutte le sedi competenti. Ricordo solo l'ultima
affermazione del dottor Armando Spataro, che era stato responsabile di quell'inchiesta, che ha ribadito che la morte di Tobagi è connessa soltanto e solo a quello che rappresentava per la democrazia di questo Paese. Purtroppo è stata una delle centinaia di vittime dell'eversione armata di quei tempi che voleva nei giornalisti, nei magistrati, nei politici, soffocare
e annullare la democrazia nel nostro Paese. Credo che non dovremmo mai finire di condannare quegli assassini e non cercare ancora oggi, nel 2004, come fa Boato, di cercare di dare la colpa ai carabinieri e a chi combatteva l'eversione e il terrorismo''.
''La risposta di Giovanardi è indecente'' ha replicato Boato precisando, rivolto al ministro, che ''lei semplicemente si è basato su informazioni di seconda mano e non ha capito assolutamente il significato di questa denuncia''. (ANSA).
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GIORNALISTI: TOBAGI; EX CC COVOLO, SI SAPEVA DI ATTENTATO
Milano, 23 luglio 2007. "Spiegai per tempo in un rapporto che un attentato sarebbe stato fatto nei confronti di Walter Tobagi e diedi i nomi di chi l'avrebbe compiuto. Ma non venne preso alcun provvedimento". Lo ha affermato, in una conferenza stampa a Milano, l'ex brigadiere dei carabinieri Dario Covolo. Tobagi, segretario dell'Associazione lombarda dei giornalisti (Alg) e cronista politico di punta del Corriere della Sera fu ucciso il 28 maggio 1980. Il suo omicidio provocò forti polemiche sul fatto che potesse essere prevenuto.
E oggi a oltre 27 anni di distanza si è tenuto un incontro sul tema 'Le verita' nascoste. Il caso Tobagi: ferita ancora apertà al quale hanno preso parte, fra gli altri,il giornalista Renzo Magosso, l'ex terrorista di Prima Linea Sergio Segio, il deputato Marco Boato, l'ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone e David Messina dell'Alg. Covolo, soprannominato quando era in servizio 'ciondolo' ha spiegato di "aver raccolto quanto raccontato dal confidente Rocco Ricciardi, definito il 'postino' del gruppo terroristico" e "di averle rese note al capitano Alessandro Ruffino". "Dopo la morte di Tobagi - ha sottolineato - ho avuto una discussione molto accesa con Ruffino perché gli avevo detto che volevano uccidere Tobagi e gli avevo fatto i nomi di Marco Barbone e altri.
Queste cose le ho anche ripetute come testimone al processo in corso a Monza davanti a lui. L'incredibile è che per aver fatto il mio dovere ora devo risponderne legalmente". Covolo, infatti, è stato denunciato per diffamazione da Ruffino, ora generale in pensione, insieme con Magosso per una intervista sul settimanale 'Gente'. La sua posizione è stata però stralciata perché vive all'estero e quindi ha preso parte alle udienze come teste. A Magosso, che sull'argomento ha scritto anche il libro 'Le carte di Moro, perché Tobagì, sono giunte parole di solidarietà da parte di Boato, Corleone e Messina "per il suo rigoroso lavoro di cronista" che viene "perseguito invece di accertare perché gli investigatori non presero in considerazione le informazioni su Tobagi". "Il processo di Monza dopo ben 3 udienze è stato praticamente oscurato dai media - ha affermato Magosso - non sono state autorizzate le riprese tv e radio quando invece sarebbe importante che la pubblica opinione sapesse i veri retroscena che al processo sono stati resi noti sull'omicidio di Tobagi. Di fronte alla testimonianza di Covolo, il generale e il suo legale non hanno replicato come verificabile dagli atti". (ANSA).