Articolo 21 - Sguardi sul mondo
Ciampi e i sogni di un giovane italiano
Se per la nostra generazione Scalfaro è stato il presidente dell’infanzia, Carlo Azeglio Ciampi è stato il più importante: quello dell’adolescenza, della stagione dei sogni, delle illusioni, dei primi amori e, per me, dei primi approcci col giornalismo e con la politica, con il mondo della cultura e con la società civile, che negli anni a venire sono diventati la mia casa e il mio orizzonte.
È stato, insomma, un punto di riferimento in uno dei periodi più travagliati nella storia del nostro Paese: negli anni del berlusconismo in ascesa, della svolta globale a destra, del neo-liberismo sfrenato di Bush, delle guerre in Afghanistan e in Iraq, della progressiva perdita di certezze e prospettive ma anche di quei dubbi senza i quali un popolo e una civiltà corrono il rischio di smarrirsi.
È stato una bussola: il Presidente che ha rivalutato il Tricolore, l’Inno di Mameli e la festa del 2 giugno, strappando questi simboli ad una tradizione politica che in realtà li ha prima infangati con l’onta di Salò e poi rivendicati non come simboli d’unità nazionale ma per contrapporli al concetto di internazionalismo che animava il PCI.
Adesso, a novantuno anni, ci ha regalato un saggio, “A un giovane italiano”, che è stato presentato giovedì scorso a Montecitorio, in un luogo simbolo come la Sala della Lupa (lo stesso, per intenderci, dove si ritirarono i deputati aventiani in seguito al rapimento di Matteotti e in cui fu annunciata la vittoria della Repubblica nel referendum del 1946), alla presenza del presidente della Camera, Fini, di Walter Veltroni, del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, del presidente di RCS Libri, Paolo Mieli, e di un ragazzo, Alessandro Acciavatti, che col presidente Ciampi ha un grande rapporto d’amicizia.
L’opera, chiara e diretta come il carattere dell’autore, offre numerosi spunti di riflessione da non sottovalutare.
Innanzitutto, è un nobile grido contro il male dell’anti-politica e un’esortazione per la buona politica a farsi avanti, ad eliminare le cattive pratiche seguite finora che hanno avvelenato il confronto pubblico nel Paese e a trovare il coraggio di uscire dall’ombra per non lasciare la ribalta a chi ci ha condotto ad un passo dal baratro.
In secondo luogo, è un viaggio, breve ma intenso, attraverso quasi un secolo di vicende italiane: dalla Resistenza al Sessantotto ai drammi della società contemporanea, ripercorso con gli occhi lucidi di un uomo in grado di abbinare alla legittima nostalgia un profondo senso di speranza, di fiducia nel nuovo, in un ideale passaggio di testimone che è anche la cifra dello spessore umano, politico e culturale del presidente Ciampi.
Infine, è un appello alla politica a ritrovare la virtù della concretezza e dell’impegno civile, costante, quotidiano, senza il quale ogni azione perde di senso e la stessa attività politica si trasforma in mero affarismo e in occupazione del potere.
Una volta, parlando di un suo precedente libro (“Non è il Paese che sognavo”), Ciampi tornò con la mente agli anni tragici della sua giovinezza: gli anni della guerra, della fame, della miseria, dei regimi totalitari che devastarono l’Europa e provocarono milioni di morti. Tuttavia, disse Ciampi, furono pure anni ricchi di voglia di rinascere.
“A vent’anni, nel 1940, - raccontò a Serena Dandini - mi sono laureato; quindici giorni dopo ero sotto le armi e c’era la guerra. Ho fatto quattro anni di guerra tra Italia e Albania e sono rientrato in Italia nel 1944, nella mia Livorno distrutta dal conflitto per il settanta per cento: arrivammo in una città in cui non c’era né acqua né luce né gas, però eravamo pieni di speranza. Eravamo convinti ogni mattina che la sera avremmo fatto un passo avanti, questa era la nostra forza. E riuscimmo a ricostruire il Paese: pensammo di ricostruirlo anche moralmente, dopo vent’anni di dittatura, dopo quattro anni di guerra e facemmo molto”.
E aggiunse: “Io do molta importanza all’etica della persona e all’etica delle istituzioni: due cose disgiunte ma che si giungono nell’uomo. Etica delle persone vuol dire il senso della dignità propria e del proprio prossimo, quindi il rispetto della persona umana che oggi sento, invece, molto debole. Ancor più sento debole il rispetto delle istituzioni”.
È un obiettivo, una linea morale quella che Ciampi traccia per l’ennesima volta in quest’appassionata lettera alla nostra generazione, confermando in me l’impressione che nutrivo quando iniziai a scrivere i primi articoli e ad appassionarmi all’idea di servire, nel mio piccolo, il Paese. Nonostante l’età, nonostante i ruoli importantissimi che ha ricoperto, ha conservato lo spirito di un ventenne, è rimasto un ragazzo di Livorno, animato da un’immensa passione etica e civile.
Come conferma l’ultima pagina dell’opera, in cui il Presidente afferma: “Novant’anni sono molti anche per continuare a nutrire fiducia; eppure, nonostante tutto, non posso dirmi pessimista. Non sto cercando, però, di indurti, giovane amico, a coltivare un ottimismo consolatorio, quel sentimento dolciastro e quasi mai sincero. Desidero invitarti ad aguzzare lo sguardo, lo sguardo acuto dell’intelletto e del cuore, affinché tu non perda di vista il segno di quella strada che tu stesso dovrai provvedere a tracciare, senza superbia, ma senza troppi timori. Come diceva Seneca nelle sue Lettere a Lucilio: ‘Continua nei tuoi progressi e capirai che sono meno da temere proprio quelle cose che fanno più paura’”.
Grazie per questa lezione di speranza, a nome dei sogni di un giovane italiano.
Roberto Bertoni
È stato, insomma, un punto di riferimento in uno dei periodi più travagliati nella storia del nostro Paese: negli anni del berlusconismo in ascesa, della svolta globale a destra, del neo-liberismo sfrenato di Bush, delle guerre in Afghanistan e in Iraq, della progressiva perdita di certezze e prospettive ma anche di quei dubbi senza i quali un popolo e una civiltà corrono il rischio di smarrirsi.
È stato una bussola: il Presidente che ha rivalutato il Tricolore, l’Inno di Mameli e la festa del 2 giugno, strappando questi simboli ad una tradizione politica che in realtà li ha prima infangati con l’onta di Salò e poi rivendicati non come simboli d’unità nazionale ma per contrapporli al concetto di internazionalismo che animava il PCI.
Adesso, a novantuno anni, ci ha regalato un saggio, “A un giovane italiano”, che è stato presentato giovedì scorso a Montecitorio, in un luogo simbolo come la Sala della Lupa (lo stesso, per intenderci, dove si ritirarono i deputati aventiani in seguito al rapimento di Matteotti e in cui fu annunciata la vittoria della Repubblica nel referendum del 1946), alla presenza del presidente della Camera, Fini, di Walter Veltroni, del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, del presidente di RCS Libri, Paolo Mieli, e di un ragazzo, Alessandro Acciavatti, che col presidente Ciampi ha un grande rapporto d’amicizia.
L’opera, chiara e diretta come il carattere dell’autore, offre numerosi spunti di riflessione da non sottovalutare.
Innanzitutto, è un nobile grido contro il male dell’anti-politica e un’esortazione per la buona politica a farsi avanti, ad eliminare le cattive pratiche seguite finora che hanno avvelenato il confronto pubblico nel Paese e a trovare il coraggio di uscire dall’ombra per non lasciare la ribalta a chi ci ha condotto ad un passo dal baratro.
In secondo luogo, è un viaggio, breve ma intenso, attraverso quasi un secolo di vicende italiane: dalla Resistenza al Sessantotto ai drammi della società contemporanea, ripercorso con gli occhi lucidi di un uomo in grado di abbinare alla legittima nostalgia un profondo senso di speranza, di fiducia nel nuovo, in un ideale passaggio di testimone che è anche la cifra dello spessore umano, politico e culturale del presidente Ciampi.
Infine, è un appello alla politica a ritrovare la virtù della concretezza e dell’impegno civile, costante, quotidiano, senza il quale ogni azione perde di senso e la stessa attività politica si trasforma in mero affarismo e in occupazione del potere.
Una volta, parlando di un suo precedente libro (“Non è il Paese che sognavo”), Ciampi tornò con la mente agli anni tragici della sua giovinezza: gli anni della guerra, della fame, della miseria, dei regimi totalitari che devastarono l’Europa e provocarono milioni di morti. Tuttavia, disse Ciampi, furono pure anni ricchi di voglia di rinascere.
“A vent’anni, nel 1940, - raccontò a Serena Dandini - mi sono laureato; quindici giorni dopo ero sotto le armi e c’era la guerra. Ho fatto quattro anni di guerra tra Italia e Albania e sono rientrato in Italia nel 1944, nella mia Livorno distrutta dal conflitto per il settanta per cento: arrivammo in una città in cui non c’era né acqua né luce né gas, però eravamo pieni di speranza. Eravamo convinti ogni mattina che la sera avremmo fatto un passo avanti, questa era la nostra forza. E riuscimmo a ricostruire il Paese: pensammo di ricostruirlo anche moralmente, dopo vent’anni di dittatura, dopo quattro anni di guerra e facemmo molto”.
E aggiunse: “Io do molta importanza all’etica della persona e all’etica delle istituzioni: due cose disgiunte ma che si giungono nell’uomo. Etica delle persone vuol dire il senso della dignità propria e del proprio prossimo, quindi il rispetto della persona umana che oggi sento, invece, molto debole. Ancor più sento debole il rispetto delle istituzioni”.
È un obiettivo, una linea morale quella che Ciampi traccia per l’ennesima volta in quest’appassionata lettera alla nostra generazione, confermando in me l’impressione che nutrivo quando iniziai a scrivere i primi articoli e ad appassionarmi all’idea di servire, nel mio piccolo, il Paese. Nonostante l’età, nonostante i ruoli importantissimi che ha ricoperto, ha conservato lo spirito di un ventenne, è rimasto un ragazzo di Livorno, animato da un’immensa passione etica e civile.
Come conferma l’ultima pagina dell’opera, in cui il Presidente afferma: “Novant’anni sono molti anche per continuare a nutrire fiducia; eppure, nonostante tutto, non posso dirmi pessimista. Non sto cercando, però, di indurti, giovane amico, a coltivare un ottimismo consolatorio, quel sentimento dolciastro e quasi mai sincero. Desidero invitarti ad aguzzare lo sguardo, lo sguardo acuto dell’intelletto e del cuore, affinché tu non perda di vista il segno di quella strada che tu stesso dovrai provvedere a tracciare, senza superbia, ma senza troppi timori. Come diceva Seneca nelle sue Lettere a Lucilio: ‘Continua nei tuoi progressi e capirai che sono meno da temere proprio quelle cose che fanno più paura’”.
Grazie per questa lezione di speranza, a nome dei sogni di un giovane italiano.
Roberto Bertoni
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