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Il popolo Rai in rivolta. Un Piano industriale da "lacrime e sangue"?
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di Gianni Rossi

Il popolo Rai in rivolta. Un Piano industriale da "lacrime e sangue"?

Il “Salone dei Quattrocento” è all’ottavo piano, quello con la terrazza, il caffè e la sala mensa frequentatissima. Ed è proprio nell’afosa sala mensa, gremita come non mai (“era dai tempi della fine anni Ottanta che non si vedeva tanta gente”, ricorda un “vecchio” dell’azienda!), che si snoda il racconto del malessere acuto dei dipendenti RAI, riuniti da due dei sindacati aziendali (CGIL e SNATER, mentre CISL, UIL, UGL e LIBERSIND hanno preferito voltare le spalle alla loro base). In quelle ore del pomeriggio caldo e umido romano si sarebbe dovuto tenere un incontro con i responsabili del personale per cercare di ricomporre lo “strappo” tra azienda e dipendenti, dovuto alla non corresponsione del premio di produzione nella busta paga di aprile: una “tradizione” quarantennale. Per di più, sapendo che un premio analogo, anche se decurtato rispetto agli anni precedenti, verrebbe erogato a giornalisti e dirigenti. Ma i soldi nelle casse asfittiche della RAI sarebbero ridotti proprio al lumicino! Ecco, quindi, spiegato perché  da qualche parte la coperta tirata mostra solo al “corpo sensibile” dei lavoratori il freddo responso dei numeri ragionieristici.

Il “no” all’incontro, riportano i leader sindacali presenti, è stato motivato dalla controparte aziendale per “il clima non certo consono” che si respirerebbe tra i corridoi e la stanze di Viale Mazzini, vista la contemporaneità dell’Assemblea, indetta in un primo momento dai 700 autoconvocati (sulle mille e 200 persone circa, che abitualmente lavorano nella direzione generale). E’ un’assemblea composta, a tratti emotiva, quando alcuni dipendenti, uomini e donne con il “groppo alla gola” e l’inesperienza di chi parla per la prima volta in pubblico, ricordano l’orgoglio professionale della loro “avventura” lavorativa, fatta di lunghi periodi di precariato e poi, una volta assunti, di impegni stressanti ma esaltanti: film, fiction, programmi educativi e storici, show. Da oltre 15 anni tutto questo sembra ormai relegato ad un’altra RAI, ad un’azienda un tempo leader per la produzione culturale, artistica e informativa in Italia, ma anche competitiva a livello europeo. Ormai, documentano questi dipendenti, agli esordi come testimoni dell’impegno sindacale, non si creano né si producono più programmi all’interno dell’azienda; le professionalità tutte (programmisti, registi, autori, produttori, scenografi, attrezzisti, macchinisti, elettricisti, cameramen, ecc…) vengono mortificate per far posto agli appalti, alle produzioni esterne, ai format, molti dei quali, denunciano, erano stati ideati all’interno per poi venir “imbellettati e travestiti” rivenduti da  società che dominano il mercato alla stessa RAI, la quale in molti casi non usufruirebbe dei diritti, sottostando, a volte, anche a clausole onerose.

E’ finita l’epoca in cui la RAI si faceva promotrice “del racconto della vita degli italiani, come disvela una programmista-regista della fiction nella sua accorata arringa: “abbiamo perso la capacità di narrare, di far vedere anche con l’aiuto della finzione narrativa quello che vive la nostra società”. Tutto è in mano a pochi gruppi ( tra questi la Endemol di Marco Bassetti, marito di Stefania Craxi, e Mediaset, la Ballandi Entertainment di Bibi Ballandi, la Magnolia di Giorgio Gori), fanno notare in  molti, che sembrano legati ad aree di potere politico vicino alla maggioranza di governo, tanto che producono per RAI come per il principale concorrente Mediaset e per SKY. Per non parlare di piccole società che sarebbero sorte attorno ad ex-alti dirigenti RAI andati via o in pensione, che riescono a ritagliarsi anche loro una fetta dalla grossa torta degli appalti.

Certo, la scintilla che ha fatto scoccare l’incendio è stata la delusione di non vedere in busta paga il premio di produzione, ma tutti i dipendenti legano questa mancanza contrattuale, più che alla crisi finanziaria del bilancio RAI, alla fosca prospettiva che si va delineando con il nuovo Piano Industriale, appena in discussione in questi giorni davanti al Consiglio di amministrazione. Piano Industriale di cui si sa poco e che dalle indiscrezioni giornalistiche, seppure smentite ufficialmente, prevedrebbe “lacrime e sangue”  soprattutto per i dipendenti: un migliaio di prepensionamenti tra i lavoratori, alcune centinaia tra giornalisti e dirigenti, riduzione di sedi di corrispondenza all’estero, revisione organizzativa della TGR, che produce i giornali radio e i telegiornali regionali. “Nessun cenno allo sviluppo, all’innovazione, alla riqualificazione del nostro ruolo produttivo, al taglio degli sprechi dovuti agli appalti, allo stop di contratti per gli esterni, che vengono assunti per meriti politici a discapito dei tanti precari che lavorano anche da dieci anni”: è questa l’accusa unanime che fanno i vertici sindacali presenti al Piano Industriale, che si sta discutendo al settimo paino di Viale Mazzini.

Reggeranno questo conflitto interno i vertici aziendali, visto che anche i giornalisti e i dirigenti RAI nei prossimi giorni saranno impegnati in un aspro confronto sindacale? L’orgoglio aziendale era ben radicato nel “Salone dei Quattrocento” di Viale Mazzini durante le due ore di discussione e di “presa di coscienza”. Il 4 Maggio, alla ripresa degli incontri tra azienda e sindacati, i lavoratori faranno un “presidio democratico” per riunirsi di nuovo in assemblea. E’ solo l’inizio, certo! Ma alla RAI qualcosa è davvero cambiato. Ora tocca alla politica, ai membri di minoranza del CDA, dare gambe e visibilità a questa presa di coscienza di chi non vuole “fare la fine dell’Alitalia”, di chi non vuole “essere sacrificato all’altare del conflitto d’interessi”.


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