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Non chiamateci "i nostri"
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di Nino Rizzo Nervo*

Non chiamateci "i nostri"

Diciamolo con chiarezza: l’assunzione da parte del presidente del consiglio dell’interim del ministero dello sviluppo economico è stata la sublimazione dell’anomalia italiana nella generale indifferenza. Ormai siamo al “conflitto di interessi perfetto” con buona pace delle Autorità di garanzia che dovrebbero vigilare sull’applicazione della pur timida legge Frattini. Il mio portiere non è tenuto a saperlo ma chi dovrebbe difficilmente può ignorare che Scajola era anche il ministro “vigilante” della Rai. Da giorni, e non sappiamo sino a quando, a controllare la Rai è dunque direttamente il proprietario dell’azienda televisiva concorrente.
L’articolo 39 del contratto di servizio attualmente in vigore (ma un’identica norma è contenuta nella bozza di rinnovo) stabilisce, infatti, che quel ministero «ha la facoltà di disporre verifiche e ispezioni e di richiedere, in qualsiasi momento, alla Rai dati, informazioni e documenti utili».
E che «la Rai è tenuta a consentire ai funzionari del ministero incaricati l’accesso agli impianti e alle proprie sedi...» e a collaborare allo svolgimento della loro attività ispettiva.
Non segnalo quanto è avvenuto per gusto di polemica. Ormai in questo paese, infatti, tutte le regole sembrano essere saltate e nulla desta più meraviglia né riesce a sollevare scandalo. Lo segnalo perché, essendo tornato di attualità il tema della riforma della governance del servizio pubblico radiotelevisivo, mi permetto di far notare a politici e giuristi che nessuna nuova regolamentazione potrà raggiungere l’obiettivo di una Rai “terza” rispetto al governo e ai partiti se non si provvederà prima a sciogliere il nodo del conflitto di interessi. Conosco, per aver lavorato insieme nel precedente consiglio di amministrazione, la serietà, la competenza, l’impegno e la passione di Carlo Rognoni. Non me ne voglia, però, per il mio scetticismo, anzi gli auguro di riuscire lì dove altri hanno fallito ma ricordi sempre che qualsiasi nuova architettura giuridica, anche la migliore possibile, rischia di infrangersi rovinosamente su quello scoglio.
È comunque importante che il maggior partito di opposizione abbia indicato la riforma della Rai come uno dei punti qualificanti della sua agenda politica. Che la legge Gasparri oltre a essere una brutta legge oggi sia superata lo dimostra il fatto che anche esponenti della maggioranza pensano ormai che con l’attuale governance la Rai è destinata a un rapido declino. Su un punto mi sembra che si possa essere tutti d’accordo: la trasformazione del mercato televisivo è resa così rapida dai tempi dell’evoluzione tecnologica che le attuali procedure decisionali non sono più adeguate ad una sana ed efficiente gestione industriale.
Bisogna uscire presto, a esempio, dall’equivoco Rai=ente pubblico.
Se la Rai è, come in effetti è, una società per azioni che opera in un regime di concorrenza nazionale e internazionale, deve potersi muovere nel settore con le stesse opportunità e gli stessi vincoli dei suoi competitori (i network privati all’interno, ma anche quelli pubblici nello scenario internazionale). Oggi invece la Rai è il servizio pubblico radiotelevisivo europeo sul quale grava la normativa più paralizzante. Né la Bbc, né France Television, né la tedesca Zdf sono equiparate nel loro stato giuridico alla pubblica amministrazione, così come ai “capi” di quelle aziende, si chiamino direttore generale o presidente, pur attraverso un sistema di controlli più o meno rigidi, sono conferiti i poteri che nelle spa hanno gli amministratori delegati. Una riforma in tal senso non è più rinviabile. Ma è qui che entra in scena la particolarità del nostro paese, cioè la storica invadenza dei partiti nella gestione quotidiana dell’azienda.
Ho sempre pensato che non è la fonte politico-parlamentare della nomina degli amministratori la causa di quella che io considero la deriva italiana. In tutti i servizi pubblici europei i vertici sono nominati da istituzioni politiche. Così è in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna anche dopo la riforma Zapatero, in Germania, in Svezia, in Austria ecc.
Ovunque. Solo in Italia, però, i partiti ritengono di essere “padroni” ai quali è riconosciuto il diritto di “possedere” i vari pezzi dell’azienda.
È senz’altro utile ripensare la composizione del consiglio di amministrazione così come è necessario riscrivere la divisione dei poteri tra il direttore generale/amministratore, il presidente e il consiglio.
Io, a esempio, suggerisco un cda snello, un numero pari di componenti (massimo sei membri) indicati anche da istituzioni non parlamentari, con amministratore delegato e presidente, però, nominati dal consiglio con una maggioranza qualificata di due terzi, e infine l’introduzione di requisiti vincolanti di professionalità, di competenza e di incompatibilità per chi ha ricoperto incarichi elettivi. L’obiettivo deve in sostanza essere quello di evitare che si realizzino maggioranze precostituite coincidenti con le maggioranze parlamentari.
Resto però ostinatamente convinto che qualsiasi alchimia giuridica non sarà sufficiente se non vi sarà un cambio di passo nella cultura politica di questo paese affinché tutti considerino finalmente come un valore l’autonomia del servizio pubblico. Si cominci intanto dalla discontinuità nello stesso linguaggio adoperato oggi dai partiti, anche di opposizione. Espressioni come “i nostri in Rai” forse sarebbe saggio evitarle, soprattutto se usate da chi chiede di voltare pagina. A nessuno potrebbe sfuggire un’evidente contraddizione semantica. Anche se gli amministratori sono indicati e, otto di loro, votati dalle forze politiche, persino la legge Gasparri stabilisce che una volta nominati devono essere autonomi e indipendenti e, quindi, senza vincolo di mandato.

* Europa Quotidiano - 11 maggio 2010


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