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Michele Prestipino ed il codice linguistico mafioso tra i pizzini dei boss
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di Giulia Fresca

Michele Prestipino ed il codice linguistico mafioso tra i pizzini dei boss

«Iddu pensa sulu a iddu» rappresenta l’accusa più infamante e grave che può essere rivolta ad un capomafia. A riferirlo, il procuratore aggiunto della DDA di Reggio Calabria Michele Prestipino, colui che a Palermo ha indagato sul tesoro di Vito Ciancimino, sulle amicizie affaristiche di Salvatore Cuffaro, sul clan delle Madonie e partendo dal pentito Giuffrè è giunto a dare una svolta alla cattura di Bernardo Provenzano e che all’Università della Calabria ha svelato i mille volti del codice linguistico mafioso. Non una lezione di legalità, quella di Prestipino, bensì una disamina storico-antropologico-esperienziale di una realtà che è, ancora per molti aspetti, incognita e che solo attraverso lo studio di investigatori nei vari settori può finalmente venire allo scoperto. «Partendo dal tema della doppiezza della parola- ha detto Michele Prestipino – occorre evidenziare come il potere ingannevole della sua fascinazione porta alla definizione di un codice linguistico mafioso che si traduce in un vero linguaggio. Non tanto in una questione lessicale e simbolica, quanto in una straordinaria capacità estensiva che va al di là dello stesso potere mafioso. Non basta quindi sentire parlare di “sbirri” per capire che quella persona può avere una certa appartenenza ma è necessario comprendere la struttura del ragionamento e del linguaggio. Il potere dei mafiosi e delle parole dei mafiosi, devono essere analizzate non solo da chi svolge il lavoro in Magistratura ma anche dagli studiosi che offrono una visione plurima sulla identificazione del codice comunicativo». Pensare che ancora oggi i capimafia si affidino a dei “pizzini” per impartire ordini e trasmettere messaggi può sembrare quasi assurdo ma in realtà «sono le uniche fonti che ci hanno permesso di ricostruire un grandissimo archivio a cui si sono aggiunte le parole derivanti dalle intercettazioni e quelle riportate dai pentiti. Oggi abbiamo un migliaio di documenti originali ed originari, cioè scritti di proprio pugno dai capimafia, dai quali è possibile risalire ad un loro linguaggio codificato che potrebbe essere definito non a torto un “giacimento linguistico culturale”. Nella cattura di Bernardo Provenzano è stato fondamentale azzerare tutte le conoscenze e ripartire dai suoi stessi pizzini che hanno consentito di ricostruire l’identikit non solo di mafiosità ma anche personale ed “umano”, dandoci la possibilità di capire in anticipo dove lo avremmo trovato. Lo studio e l’analisi delle parole dei mafiosi non è stata un’azione semplice anche per via delle ristrettezze economiche, ed il primo bagaglio di vocaboli e parole è arrivato dai primi pentiti, i quali dovevano portare ad una realtà mediata tra chi era stato mafioso e chi non voleva esserlo più. L’importanza delle intercettazioni è fondamentale nelle azioni contro la mafia, perché attraverso esse è possibile rinnovare le modifiche dei codici ed intervenire nella corretta interpretazione dei messaggi e dunque intervenire con efficacia nella lotta alla mafia». Leggendo tra i pizzini scritti da Provenzano si ritrovano parole che spesso si sentono in ambienti molto più vicini alla politica come “condivisione”, “bene di tutti” e “per la nostra causa”. «È emblematico comprendere come queste terminologie lasciano intravedere una “causa” ideale che porta il capomafia ad essere un capo illuminato che guarda alla funzione del suo popolo, in base al quale fondare il proprio criterio di legittimazione interna del potere mafioso e di ricerca del consenso all’esterno – ha concluso Prestipino –Certo è che alla costruzione dei concetti, non si hanno, da parte dei mafiosi azioni consequenziali e dunque ecco che anche i capi sbagliano e quando ciò avviene una delle accuse più gravi che viene loro mossa è che “il capo non pensa ai suoi carcerati”, ovvero solo a se stesso ed al suo potere».

 


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