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Di Landro ancora non “deve” morire
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di Giulia Fresca

Di Landro ancora non “deve” morire

Ancora una volta un attacco dinamitardo, ancora una volta un uomo di Giustizia nel mirino della ‘ndrangheta. Ma non è la prima volta che tocca al Procuratore generale di Reggio Calabria, Salvatore Di Landro. Certo è che ieri notte l’uomo da colpire era lui e non il suo Ufficio. Un avvertimento che poteva non essere tale, perché la malapianta sa bene quanta polvere serve per far saltare in aria un palazzo e far allungare la lista dei morti. Di Landro non l’hanno voluto “morto” e l’ordigno che è stato fatto esplodere davanti al portone dell'abitazione del magistrato, all’interno della quale si trovava insieme alla moglie, ha mandato in frantumi i vetri delle finestre e di quelle immediatamente vicine senza lasciare feriti.
Chi ne esce profondamente ferita è invece la città di Reggio Calabria e tutta la regione, nella quale si continuano a sventolare proclami che annunciano le vittorie nella lotta contro la criminalità organizzata. Strano però che ancora nessuno conosca il nome ed il motivo di quell’attentato del 3 gennaio alla sede della Procura Generale di Reggio Calabria, che aveva richiamato l’attenzione nazionale sull’esistenza della ‘ndrangheta nell’estrema regione del Sud, di una “malapianta” che ramifica all’interno dei poteri dello Stato e che cerca in tutti i modi di ricordare, a quanti se ne fossero dimenticati, che essa c’è ed è viva.
L’attentato fu “strano” per le circostanze: la concomitanza con i fatti di Rosarno, l’arrivo dei rappresentanti del Governo per discutere dei provvedimenti da adottare, per non parlare della “donna”, o fantomatica tale, che guidava lo scooter dal quale un ragazzo è sceso con l’ordigno esplosivo. Una dimostrazione di “esistenza”, confermata dal ritrovamento dell’auto carica di arsenale ed armi quando Giorgio Napolitano venne in visita nella città dello Stretto. Cosa si è fatto da allora? A che punto sono le indagini? Chi sono gli esecutori? Chi i mandanti? Quali le famiglie? Domande nel vuoto che ieri pomeriggio hanno fatto scendere in piazza chi non ci sta.
Reggionontace e Libera sono stati i primi. Alle 18,30 si sono ritrovati in Via Carlo Rosselli per «dimostrare che non si deve e non si può lasciare soli i servitori dello Stato come il dottor Di Ladro nella lotta alla ‘ndrangheta».
Un tentativo che ha risvegliato dal lieve stordimento da assuefazione, poco più di duecento persone che si sono strette intorno a Di Landro in un sit-in composto e silenzioso. L’uscita del magistrato da casa ha spontaneamente stimolato un grosso applauso facendolo esortare: «State vicini alle istituzioni perché da soli non ce la facciamo, abbiamo bisogno della cittadinanza al nostro fianco. Mi dispiace che la città debba vivere momenti come questi perché significa che c’è ancora molto da fare e molto contro cui lottare: il nemico è forte ma, se lavoriamo bene con serietà e serenità, otterremo risultati. Bisogna affrontare la realtà a testa alta e rimanere coesi».
«Dall’attentato di gennaio contro la Procura generale- ha detto Di Landro – c'è stata una tensione malevola e delittuosa crescente, da parte della criminalità organizzata, che si è personalizzata. Evidentemente vogliono farmela pagare per aver fatto sempre, ed in ogni circostanza, il mio dovere di magistrato».
Eppure noi di Articolo21 lo avevamo ricordato qualche giorno fa richiamando la Calabria attraverso quel “Sistema Reggio” che intreccia in maniera torbida ‘ndrangheta, politica, imprenditoria, massoneria deviata, intervenendo non solo nella zona grigia ma allargando sempre più la zona bianca fatta di fedine penali candide e di personaggi insospettabili.
È su questi aspetti che occorre indagare ed è sufficiente ricordare tutti i giudici che prima di Di Landro hanno ricevuto intimidazioni per rendersi conto che l’unico strumento per intervenire con certezza e determinazione sono le indagini investigative condotte con l’ausilio delle intercettazioni telefoniche ed ambientali.
Ma non solo. Le indagini dell’attentato di gennaio sono di competenza della Procura di Catanzaro ed alla mancata individuazione dei responsabili si aggiunge la mai cessata rivalità tra magistrati. Chi deve catturare chi! Chi deve entrare nella “zona bianca” dei politici, imprenditori ed uomini delle istituzioni e delle amministrazioni che non lasciano dormire il Procuratore della DDA, Pignatone?
Intanto anche questi ultimi fascicoli andranno a Catanzaro, competente ad indagare su fatti che riguardano i magistrati reggini e, oltre alle due precedenti intimidazioni ai danni di Di Landro: la bomba esplosa il 3 gennaio davanti al portone della Procura generale e la manomissione dello pneumatico dell'auto di servizio del magistrato, riguardano anche l'invio di una busta con una cartuccia da fucile al pm della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo.
La solidarietà non basta più, e le parole sono ormai diventate troppe. La Calabria ha bisogno di ben altro a cominciare dal lavoro, l’unico in grado di togliere manovalanza e far diminuire quanti sono nel “libro paga” degli ‘ndranghetisti col Potere in mano.


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