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XX settembre. Vu’ cumpra’ ?
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di Federco Orlando

XX settembre. Vu’ cumpra’ ?

Mi hanno deluso non pochi dirigenti ed elettori della nostra area politica, persone di cultura media e anche buona, che frequentano edicole e biblioteche , più che commercialisti e fiscalisti per evadere e condonare. Con molti di questi amici ho dovuto discutere, da quando ci si sono messi   Alemanno e Bertone per il XX Settembre nuovo format, compresi i restauri a Porta Pia, lavata con perlana. Perfino le lapidi e la colonna della Vittoria laica sono state ripulite dal Campidoglio, dopo decenni di menefreghismo  democristiano e laico : restauro degno dei merletti della signorina Felicita, “l’amica di nonna Speranza” cantata da Gozzano, tanto che le mini-aiuole sotto le mura sono tornate verdi come fossero l’Olimpico o San Siro, dopo decenni di bivacco per vagabondi, barboni e drogati, fra mucchi di bottiglie e intenso “odore” di piscio.
Dunque i miei amici al bar e i politici in Transatlantico, mi consigliavano di non farmi il sangue amaro per questo nuovo format, “Tanto, del 20 settembre non importa più a nessuno”. Cosa vuoi? Stipendi bassi e tasse alte, precari d’industria, servizi, amministrazione; lavoro nero nella miriade di negozietti, giovani costretti a campare su papà e nonna, schiavismo mafioso e camorristico, governo occupato dai processi del premier, opposizione erotizzata dalle liti, appartamentino di Montecarlo che da mesi impegna i Servizi segreti (mentre i soldati muoiono in Afganistan) e i loro giornali. Cosa vuoi, tu appartieni ad altre generazioni, anche non se proprio a quelle del 1870, alla gente d’oggi non interessa se a celebrare la ricorrenza sia il capo del governo pontificio, contro il quale fu fatta la breccia, e non il capo del governo italiano: erede, in teoria, di quelli che la profetizzarono e la fecero, Cavour, Lanza, Vittorio Emanuele, Cadorna,  Manzoni (e anche Garibaldi e Mazzini, che però la breccia volevano scavarla da soli, i romantici).
Ma che “interessi a nessuno no” proprio non mi sembra. Non interessa alla nostra parte, perché la nostra parte non ha più molto a cui richiamarsi e molto  da dire. Ma interessa a clericali e fascisti, per dire, Alemanno e Bertone (come nel Novecento a Mussolini e Craxi, Gasparri e Casaroli): i quali fanno Trattati del Laterano, dove si fissano le regole della convivenza fra le due Rome, ma anche i concordati, dove si parla di soldi e di utilità varie. Che l’Italia non potesse vivere spaccata, si sa da 140, 150 e forse anche più anni: la Legge delle Guarantigie (1871, cioè l'assoluta indipendenza e libertà del papa anche senza potere temporale), i vincitori di Porta Pia la offrirono a Pio IX addirittura prima che Vittorio Emanuele II mettesse piede al Quirinale. Sono cento anni (1913) che Giolitti, nella sua politica di “conciliazione silenziosa” e di allargamento del consenso allo Stato, realizzò il Patto Gentiloni fra elettori cattolici e candidati liberali moderati. Sono sessantadue  anni (1948) che la repubblica italiana si regge su una Costituzione che recepisce patti lateranensi e concordato, in modo anche troppo unilaterale e con crescente pratica discriminatoria.
C’è, dunque, chi ha interesse a riprendersi Porta Pia, strappandola alla storia dell’unità d’Italia, che - come ha ribadito Lucio Villari – fu “cavouriana e liberale”. Per le gerarchie, è molto più importante dei soldi e dell’egemonia “etica”, sottolineate  invece da  non pochi partecipanti alla modesta contromanifestazione radicale del 19 settembre, che ha anticipato e disconosciuto quella ufficiale del 20. C’è una chiesa di “riconquista” che, sapendo di avere un avvenire, sia pure non più onnipotente, cerca di far proprie quante  “radici” è possibili: non solo “radici cristiane” dell’Europa, fino a predicare l’antirelativismo perfino in Gran Bretagna, o “radici cattoliche” dell’Italia; ma si comporta come se cattoliche (nel senso di romano-papale) fossero anche le radici del Risorgimento e dell’unità italiana. Al punto che in Campidoglio la celebrazione è stata consacrata da storici graditi e ammessi da Bertone (a parte mons. Ravasi, che ne aveva titolo) e dedicate a Pio IX, lo sconfitto di Porta Pia, l’ultimo papa-re. Non pretendevamo che fosse dedicata a Vittorio Emanuele II, primo re di quella che il repubblicano Spadolini battezzò “la monarchia giacobina”: a farlo aveva pensato anche troppo il cinquantenario del regno nel 1911, tutto in chiave dinastica. Né personalmente crediamo che la repubblica avrebbe oggi la forza morale e culturale per osarlo. Ma che almeno si parlasse di chi il risorgimento lo volle, non  di chi lo combattè fino all’ultimo e dopo.
Ora ai miei amici che mi esortano a non  farmi il sangue amaro (tranquilli, ma alla mia età il sangue è poco ricettivo) faccio presenti due cose, che potrebbero fare il sangue amaro a loro. Se non hanno acqua nelle vene. La prima è che a noi “non interessano più queste cose” – come loro dicono – perché non abbiamo il coraggio e la dignità di rivendicare le nostre radici di nazione, di stato e di liberaldemocrazia, temendo che la rivendicazione ci metta in contrasto con la vulgata repubblicana e con altri potentati e culture coi quali bisogna convivere; e perché noi stessi non siamo uniti nel riconoscere quelle radici. Si pensi al trattamento riservato dalla storiografia egemonica ai tre stupendi volumi di Rosario Romeo su Cavour. Anche allora, quando uscivano, il personaggio “non interessava più”, e sopratutto le sue idee e la sua realizzazione non collimavano con la vulgata e con l’insegnamento di marxisti e clericali. E però, amici,  mettetevi in testa che, se non ritroviamo nella patria - come fu concepita e realizzata - la radice comune, non basterà l’antiberlusconismo a fare di noi una forza organica e vincente. Perdiamo sempre. La seconda cosa – che mi costa anche di più riconoscere – è che tuttavia dobbiamo esser grati a mons. Ravasi, organizzatore culturale di questa Porta Pia di Pio IX, e al cardinale Bertone, tornato a riprenderne le chiavi. Così, millantando  una santa alleanza Stato-Chiesa per l’Italia, sarà possibile salvare l’unità d’Italia dal bossismo secessionista, garantendo una presenza culturale “unitaria” dalle Alpi a Pantelleria: quella presenza che la cultura “laica” e le sue espressioni politiche non hanno più saputo o voluto o potuto esprimere e  garantire. Quanto ai liberali come noi, minoranza come sempre, nella nicchia come sempre, non ci resta, proprio come nell’Ottocento, che la ventata laica-liberale del mondo arrivi anche in Italia, purché non confusa coi  delitti liberisti della globalizzazione. 

 


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