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Vorrei dirti che non sei sola. Lettera aperta a Ilaria Cucchi
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di Filippo Vendemmiati

Vorrei dirti che non sei sola. Lettera aperta a Ilaria Cucchi

Cara Ilaria,
ho letto il tuo libro e vorrei dirti che non sei sola perché la morte di tuo fratello, Stefano, è stato un delitto di Stato, e anche per questo “per quanto ci possiamo credere assolti, ne siamo tutti coinvolti”. Quando è entrato in carcere Stefano è stato preso in custodia dalla Stato, lo Stato ha restituito a te e ai tuoi familiari il suo cadavere. Sfregiato, contuso, rotto e smagrito di 15 chili.  Sono stati sei giorni terrificanti. Stefano, dopo essere stato  incarcerato secondo legge, è stato sequestrato e ucciso, contro la legge. E’ morto in solitudine, con un lenzuolo nascondeva il volto a se stesso e suoi numerosi giustizieri, non sapeva che invano i familiari dal primo giorno cercavano di incontrarlo, scontrandosi con la burocrazia e l’omertà di carcerieri e personale medico.
Scrivi: “E’ andato mio padre a Regina Coeli a ritirare gli effetti personali di Stefano. E’ tornato a casa con un contenitore di cartone poco più grande di una scatola di scarpe. Dentro c’era quello che lo Stato ci riconsegnava dopo averlo tenuto in custodia per sette notti e sei giorni: un paio di lacci, la carta d’identità e la patente di guida, una catenina, due bracciali, due orecchini, un anello, una confezione di medicine, una tuta da ginnastica,  due paia di mutande, due paia di calzini,  e due magliette intime”.
Ti ho ascoltata l’altra sera in tv, mentre ripetevi che Stefano non era un eroe, figlio di una famiglia modello, che anzi era un tossico, che per rifornirsi aveva anche iniziato a spacciare. Queste parole  me le sono appuntate nella mente leggendo il libro, che hai scritto con Giovanni Bianconi.  Sappi, Ilaria, che non devi chiedere scusa, né cercare giustificazioni o peggio sentirti in colpa. Per gli uomini in divisa, tutori dell’ordine e della legalità,  la condizione di debolezza e di dipendenza fisica e mentale di Stefano costituiscono un aggravante a condotte violente e omissive e non un’attenuante. Sono altri che devono spiegare il loro comportamento, non tu, non i tuoi genitori, e nemmeno Stefano, la cui dignità e memoria non possono essere vilipese perché “tanto era un tossico”.  E’ pieno di drogati, sbandati, ubriachi, disturbati mentali, “froci” e anarchici il mattinale delle vittime degli abusi di potere. Oggi   non  stupisce, ma rende ancora più vergognosa  questa storia, apprendere che  sul verbale d’arresto si legge  di  “Cucchi Stefano, nato in Albania il 24 ottobre 1974, in Italia, senza fissa dimora”.  Appunto, dimenticavo di aggiungere alla categoria extracomunitari e senza fissa dimora. I fatti, le responsabilità forse, sono diverse, ma quante analogie con la tragica fine di un'altra vittima di tutori “fuorilegge”, Federico Aldrovandi. Anche lui non doveva essere un italiano. Testimonia al processo il capo pattuglia Enzo Pontani: Lo vediamo che ringhia tra il buio degli alberi, aveva la vene fuori dal collo, un pazzo di cento chili che si scaglia contro di noi, sembrava un extracomunitario. Se Federico sbatteva la testa contro gli alberi, circostanza dimostratasi totalmente inventata dagli operatori di polizia e carabinieri, Stefano invece, racconta una guardia penitenziaria,  “Ho potuto vedere dei segni sotto gli occhi di colore violaceo, una macchia rossa sulla parte sinistra  del collo e un segno rosso di circa 15 centimetri sopra l’osso sacro. In maniera ironica e per sdrammatizzare gli ho detto: hai fatto un frontale con treno? E lui mi ha risposto che era stato pestato all’atto dell’arresto.
 
 
Il tuo libro, Ilaria, è anche la storia di un legame molto stretto e forte tra due fratelli che si amano profondamente e che le disgrazie di uno di loro ha reso più intimo. Stefano più giovane, nato prematuro e gracile fin dalla nascita, quando neonato lo potevi veder solo attraverso il vetro e a lungo non hai potuto toccarlo. I suoi primi giorni di vita sono stati per te come gli ultimi. Ancora prematuro, in fondo, anche dietro alle sbarre. Non hai mai potuto vederlo, quando sarebbe bastato uno sguardo per salvarlo, ma ti  è stato negato, perché i vostri occhi avrebbero  rivelato troppe circostanze che dovevano restare nascoste. I medici lo hanno fatto nascere, altri medici lo hanno fatto morire. Hanno rubato e ingannato la tua fiducia. Mentre tuo fratello reclamava invano il suo avvocato di fiducia e mentre chiedeva invano di parlare con gli operatori di una comunità di recupero, tu lo immaginavi in fondo in buone mani. Vi dicevano che era tranquillo e pure tu come i tuoi genitori vi sentivate più tranquilli, perché “meglio all’ospedale che in carcere”. La storia tragica di Stefano si inserisce nel  dramma di chi fino all’ultimo si fida. Leggendo il libro ho capito che il tuo rammarico più forte oggi è proprio questo, esserti fidata, aver accettato da “cittadina onesta” le regole, anche quelle più assurde che ti impedivano di avere notizie dirette e di fargli sapere che gli eravate vicini e che non lo avevate abbandonato. Per questo subito dopo la notizia della morte la  tua reazione, la tua voglia di sapere e di far  sapere è stata tanto più convinta e determinata. Vi hanno presi in giro anche nel darvi  la notizia della morte, comunicata per altro prima al medico legale che alla famiglia. Non è un  paese “civile” altro che “normale”, quello nel quale una carabiniere si presenta a casa da una madre e non le dice che il figlio è deceduto, ma le sottopone alla firma “il decreto di nomina del consulente per accertamenti urgenti non ripetibili, art. 360 C.P.P”. Era il permesso per l’autopsia, Stefano era tecnicamente una salma.
“Dunque era vero. Mio fratello, detenuto in attesa di giudizio presso l’apposito reparto carcerario di un ospedale, era morto quello stesso giorno per cause sconosciute e da accertare. E noi, i suoi familiari che non sapevano nemmeno perché era stato ricoverato, siamo stati avvisati da un carabiniere tramite la  notifica dell’autopsia e l’avviso che potevano nominare un avvocato e un nostro consulente di fiducia. Questo era successo”.
E anche a questo punto la tua battaglia si intreccia e si sovrappone con quella di un'altra donna, Patrizia Moretti, mamma di Federico. So che vi siete conosciute in quei giorni, che vi siete trasmesse forza, che siete diventate amiche. Il cadavere di un vostro caro martoriato è la vostra stessa icona, che da allora chiede giustizia e verità. Se Federico è morto per un malore, Stefano si è  banalmente spento, questo vi hanno detto. Manganellate alla testa e su tutto il corpo, ossa rotte e volto sfigurato, questo vi hanno nascosto. Vi siete violentate: ecco le foto, pubblicatele, diteci cosa è successo, è stata la droga, una caduta dalle scale, chi è stato?
“Stefano era disteso su una barella, protetto da un teca di vetro, ma se non avessi saputo che era lui difficilmente l’avrei riconosciuto. Uno spettacolo tremendo. Aveva il volto scuro, quasi nero come se fosse bruciato, e incavato fino alle ossa. Poco più di un teschio. Il resto del corpo era coperto da un lenzuolo. Non so come sono riuscita a rimanere in piedi. Non ho gridato, né mi sono coperta gli occhi, ma ho cominciato a scrutare il cadavere martoriato di mio fratello cercando di catturare ogni dettaglio di quell’immagine aberrante…L’ultima effigie che avrei avuto di lui era un volto sfigurato,  che ricordava i cadaveri dei deportati nei campi di concentramento nazisti”.
Senza quelle foto Federico e Stefano  sarebbero rimasti per sempre a futura memoria  due tossici, che in fondo se l’erano cercata. Scrivi Ilaria, che è stato straziante discutere con i tuoi genitori della pubblicazione di quelle foto. Li hai convinti, ma ancora più dura è stato convincere te stessa e decidere di cominciare un calvario giudiziario dal quale è poi impossibile ritirarsi. Stefano sarebbe stato contrario a mostrare in pubblico quelle foto, teneva troppo alla propria immagine, scrivi.  Ma quella foto non ritraggono l’immagine di tuo fratello, ma la faccia senza vergogna e impunita di chi lo ha ridotto così e di chi non lo assistito.
Tu non avevi nulla da nascondere, la trasparenza di una famiglia contro i silenzi dei rappresentanti dello stato. A un mese dalla morte avete scoperto che nella sua casa Stefano nascondeva droga e attrezzature per confezionarla e rivenderla. Avete denunciato tutto questo, anche questa è una foto che ci avete distribuito, quella di chi non copre le debolezze e i comportamenti illegali di un suo familiare. Perché la droga con il “Caso Cucchi” non c’entra niente.
Ancora prima di avviare le indagini, le prime risposte alle tue domande sono state come sempre sconfortanti. Per il  ministro della difesa Ignazio La Russa il comportamento dei carabinieri fu assolutamente corretto e poi quando si capì che le indagini avanzavano con lentezza esasperante da amministratrice di condomini ti sei trasformata in investigatore privato, girando a raccogliere testimonianze con un registratore nella borsa. E i muri del carcere hanno iniziato a parlare.
“Qualcuno ha visto tirare calci e pugni contro mio fratello, la mattina dell’udienza, nei sotterranei del Palazzo di Giustizia”. “Ho sentito che lui stava male e volevo  aiutare per portare in ospedale”. “Il trattamento riservato a Stefano è risultato essere la somma di tutti i limiti del carcere, dell’ospedale e della burocrazia… ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante”.”Aveva una frattura alla schiena”.” Quando è entrato in carcere era sano, pesava 52 chili e non aveva malattie né patologie particolari; ne è uscito cadavere, ridotto ad uno scheletro di 37 chili,  con il volto e il corpo coperti  di ecchimosi, escoriazioni e tumefazioni”.
Ilaria ci ho messo un po’ prima di scrivere del libro, che mi hai tempestivamente spedito alcune settimane fa. Mi sono preso del tempo dopo averlo letto per trovare la giusta distanza, anche emotiva, dai fatti e dai sentimenti che vi sono raccontati. Troppe erano le analogie, a volte le stesse persone, i riferimenti  ad altri “fatti” di cui mi sono occupato e di cui non ho alcuna intenzione di liberarmi. Ho tratto conforto che quello che stiamo facendo ha un senso e un valore.
Andiamo avanti. Vorrei dirti che non sei sola e che non siamo nemmeno in pochi. Gli ostacoli e le delusioni si fermano in noi e prima o poi passano sempre, nel nome di una  battaglia di civiltà che è più grande di noi ma che ci appartiene fino in fondo. E’ l’unico modo in fondo, come un giorno ti ha scritto Stefano  “ di far tornare indietro il tempo e magari cambiare il finale”.

 


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