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Gli archivi della Rai oltre la televisione
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di Redazione

Gli archivi della Rai oltre la televisione

Quale dev’essere la mission della Rai nei prossimi dieci anni? Si parla molto dell’assetto istituzionale che il servizio pubblico dovrà assumere ma poco si discute dei problemi di natura organizzativa considerandoli questioni di mera ingegneria aziendale o di pertinenza sindacale laddove, al contrario, incidono sulla qualità del prodotto e sulla sua mission molto più di quanto non si creda.
Ad esempio, vi sono diversi tipi di censura. Ma chi ne ha fatto esperienza sa che il più efficace e subdolo sta nel ridimensionare i tempi e i mezzi di produzione, nell’assegnare tecnologie obsolete, più in generale nel adottare un modello produttivo che avvilisce la creatività e l’approfondimento dei contenuti.
Per iniziare questa riflessione sulla “cultura dell’organizzazione” - che ci auguriamo sia la più ampia possibile - abbiamo chiesto a Renato Parascandolo di delineare, in una serie di articoli, i problemi che investono la struttura e il funzionamento dell’azienda: dal modello ideativo-produttivo al coordinamento dell’offerta sulle diverse piattaforme, dal decentramento regionale alle teche, alle nuove professionalità. Il primo contributo, dedicato al superamento delle reti televisive, è stato pubblicato la settimana scorsa, il secondo riguarda gli archivi nell’epoca dell’intermedialità...


di Renato Parascandolo

Chi lavora per la televisione realizza programmi destinati alla messa in onda. Tradizionalmente, dopo la trasmissione, si archivia il programma ma non il materiale che è servito per la sua realizzazione: quello che in gergo si chiama il “girato” viene cestinato. In altre parole, chi fa televisione si comporta come un sarto che, dovendo confezionare un vestito, acquista poco più del metraggio di stoffa necessario, e butta via i ritagli.
La consuetudine di archiviare solo i prodotti finiti è fonte di un paradosso: decine di migliaia di programmi, privi di qualunque valore (la cosiddetta Tv spazzatura), sono conservati e documentati con ogni cura, mentre il girato originale di programmi preziosi sul piano culturale e storico, ma anche, in prospettiva, commerciale, realizzati da autori e registi di fama, viene distrutto perché considerato scarto, semplice rimasuglio.
Si spera che un giorno si porrà riparo a questo spreco. E tuttavia bisogna dire che il vero danno, il più irrimediabile, lo subisce un altro tipo di materiali: quello che non viene archiviato semplicemente perché non è stato mai girato.
Se, per esempio, si deve realizzare un documentario su Botticelli, una troupe si reca alla Galleria degli Uffizi per riprendere l’Adorazione dei Magi, la Primavera e le altre opere del pittore fiorentino; però trascura i dipinti di Giotto, Paolo Uccello, Raffaello e altre centinaia di capolavori: un comportamento apparentemente coerente, visto che quei dipinti non riguardano il tema del documentario. Oppure, immaginiamo che un telegiornale mandi un inviato in un paese del Maghreb dove è in corso una rivolta per l’affermazione di un’autentica democrazia. Il reporter si limiterà a riprendere i luoghi del conflitto con veloci panoramiche e primi piani di grande efficacia. In fondo si lavora per un telegiornale, che dedicherà all’episodio non più di due minuti: in quest’ottica, non avrebbe senso approfondire l’argomento, addentransi nelle pieghe della società civile, documentare le contraddizioni interne al regime e agli stessi rivoltosi. Queste riprese supplementari, che pure sarebbero a costo zero, come le riprese delle tele di Giotto, Paolo Uccello e Raffaello dell’esempio precedente, non saranno realizzate, poiché non si saprebbe come utilizzarle. E se, per puro caso, venissero effettuate, non essendo destinate a entrare in un “prodotto finito”, finirebbero gettate alla rinfusa in un armadio e, alla fine, mandate al macero essendogli preclusa, in quanto “girato”, l’archiviazione nelle teche.
Il problema, dunque, non riguarda soltanto l’archiviazione dei filmati originali ma investe l’intero modello produttivo dominante negli apparati televisivi, a partire dal modo in cui sono ideati i programmi. Infatti, fino a quando si richiederà a un autore di realizzare programmi finalizzati esclusivamente alla messa in onda, le teche, come suggerisce la parola stessa, continueranno a essere popolate di prodotti “finiti” (cioè morti!).
Poiché il core business delle emittenti televisive è la “trasmissione” remunerata dalla pubblicità e/o dal canone di abbonamento, tutto ciò che non rientra in un palinsesto è considerato un prodotto derivato, un materiale di risulta residuato dal programma televisivo. Solo se quest’ultimo avrà avuto successo, si provvederà a realizzare il Dvd, la versione in download, l’applicazione per gli smartphone, il videogioco, ecc. Ma, non potendo attingere - avendola cestinata - alla “materia prima” originaria, e non avendo girato ad abundantiam nella fase delle riprese, bisognerà arrangiarsi smembrando e ricucendo il prodotto televisivo per adattarlo al linguaggio dei nuovi media: un’operazione rimediata dagli esiti improbabili, tant’è che spesso si finisce per trasferire pedissequamente il programma televisivo su altre piattaforme, nella sua integrità.
Questo attaccamento alla monomedialità televisiva, è un fattore “ideologico” che penalizza fortemente gli apparati televisivi tradizionali e li espone a un precoce invecchiamento rispetto alle migliaia di aziende, piccolissime e grandissime, che operano nell’universo dei media digitali: un vero peccato se si pensa alla potenzialità ideativa e creativa accumulata dalla Rai in oltre mezzo secolo, alle professionalità disponibili e alla consuetudine a ricombinare le centinaia di migliaia di ore di materiali sonori e audiovisivi giacenti nelle teche.
La riluttanza ad aprirsi a una “intermedialità” intesa come ideazione e realizzazione contestuale di prodotti “per molti media” nasce sicuramente dalla difficoltà ad abbandonare la rendita di posizione che la televisione generalista ha finora garantito; tuttavia, il ritardo di cui è vittima la Rai non è solo dovuto a una forma di conservatorismo: fino a quando il suo modello organizzativo, imperante da quarant’anni, fondato sulla giustapposizione di monadi monomediali in concorrenza e in sovrapposizione tra di loro (l’intermedialità è l’intreccio, e non è la somma, di tante monomedialità) non sarà stato smantellato, la sinergia ideativo-produttiva tra la Tv e i nuovi media sarà necessariamente asfittica e marginale.
La svolta impressa al piano industriale dal nuovo DG con la creazione di una macrostruttura dell’Intrattenimento, è un passo avanti decisivo (ora manca solo la Cultura) per il passaggio a un modello organizzativo per generi che consentirà finalmente di progettare non più singoli programmi e serie televisive, bensì prodotti che al posto della consueta scaletta/sceneggiatura elaborino un vero e proprio piano dell’opera, un’opera intermediale da realizzare in diverse versioni, di cui quella televisiva è solo una tra le tante. In altre parole, da una sola idea potranno nascere una mezza dozzina di prodotti attingendo, di volta in volta, al girato originale e ad archivi ricchi non solo di prodotti finiti ma anche e soprattutto di materiali grezzi o, meglio ancora, semilavorati.
Spingendosi oltre la televisione nasceranno nuove professionalità con competenze intradisciplinari: gli autori, i registi, i redattori, i montatori, ecc. continueranno, forse, a chiamarsi nello stesso modo ma il loro profilo professionale sarà molto più ricco e complesso, soprattutto in termini di creatività.


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