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La difficile ricerca dell’obiettività
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di Renato Parascandolo

La difficile ricerca dell’obiettività

Sono trascorsi più di vent’anni da quando nella Tv pubblica il giornalismo d’inchiesta è stato soppiantato dai talk show a sfondo politico e sociale. Senza addentrarsi in giudizi di merito, valga una considerazione: nell’inchiesta, la televisione esce dagli studi per descrivere e analizzare le dinamiche sociali nella loro complessità dando la parola ai fatti e ai loro protagonisti; nei talk accade il contrario; si pretende, cioè, che sia la realtà sociale a entrare nell’angusto spazio di uno studio televisivo. In conseguenza di questo rovesciamento le opinioni prendono il posto degli eventi e i politici di professione rimpiazzano i protagonisti delle dinamiche sociali, salvo far apparire questi ultimi di tanto in tanto, mescolandoli a quell’altro surrogato della realtà che sono i sondaggi, al solo scopo di rianimare la disputa tra gli ospiti della trasmissione.
Di là dai motivi strutturali che hanno provocato il declino dell’inchiesta televisiva come genere, occorre segnalare la presenza di un fattore d’ordine ideologico che ne ha accentuato la crisi favorendo, al contempo, il successo di quelle passerelle di opinioni che sono i talk politico-sociali: il luogo comune secondo il quale “l’obiettività non esiste”.
L’inchiesta sul campo, uno strumento che affonda le sue origini nella sociologia accademica, presuppone che la situazione su cui s’indaga abbia una sua oggettività, che vi sia cioè una realtà di fatto, magari contraddittoria, volutamente occultata, o semplicemente confusa, che tuttavia può essere compresa e spiegata in modo univoco, razionale e, almeno tendenzialmente, obiettivo. Purtroppo questa banale considerazione si urta contro il pregiudizio - fortemente radicato tra giornalisti d’ogni tendenza - che sia impossibile essere imparziali nella descrizione della realtà: una realtà alla quale non potremmo avvicinarci neanche per approssimazione a causa del vizio prospettico indotto dalla nostra soggettività (parzialità). Pertanto, la verità (realtà) sarebbe inconoscibile, in ogni caso non comunicabile (Gorgia) o addirittura, secondo il celebre aforisma di Nietsche non esisterebbe affatto: “Non esistono fatti ma solo interpretazioni”.
Il trionfo della doxa (opinione) sull’episteme (verità oggettiva) comporta, nell’informazione e nella vita politica, conseguenze più gravi di quanto non sembri a prima vista. Lo scontro per giungere a svelare la verità si trasforma, infatti, nello scontro intorno alla verità. In altre parole, ciò che conta non è tanto mostrare come realmente stanno le cose attraverso una scrupolosa e imparziale indagine sui fatti e il loro contesto, ma piuttosto persuadere l’opinione pubblica che una data interpretazione dei fatti sia la “verità”. Questa caduta nel precipizio della doxa ha generato regole del gioco che sfiorano la perversione: dalla lottizzazione allo spoil sistem, alla par condicio permanente. 
In un mondo in cui i conflitti di potere devono fare i conti con le opinioni dell’elettorato, sarebbe da ingenui stupirsi del proliferare di accese dispute televisive tra opposte faziosità e partigianerie (i talk show) e della marginalizzazione delle inchieste sul campo; anche perché la tensione verso la verità, implica fatica, impegno, rischio personale, notevole competenza e conoscenza approfondita degli eventi e del loro contesto; in altre parole, implica una salda professionalità giornalistica. Tuttavia, se ammettiamo che vi sia una realtà dai contorni precisi, che vi siano dei processi storici che hanno una logica e un senso, che vi siano fenomeni di lunga durata nella storia tali da precostituire in larga parte gli eventi futuri; se vi è insomma una realtà storicamente determinata nella sua oggettività, perché mai nel lavoro giornalistico non avrebbe senso la ricerca della verità?
Se è difficile cogliere la sostanza delle cose – la “verità” della notizia – non per questo essa non sussiste, e non per questo possiamo sentirci esentati dal dovere di cercarla. D’altra parte, non esiste disciplina, scienza o professione, che possa definirsi tale, che non abbia un campo d’azione oggettivamente definito. Se tutti gli accadimenti fossero aleatori e accidentali, sarebbe impossibile ogni conoscenza e ogni orientamento nell’azione. Essere una “buona penna”, un “giornalista d’assalto”, un polemista dalla sferzante ironia, “quasi-uno-scrittore” un “anchorman di successo” non significa, quindi, essere necessariamente un buon giornalista: la funzione del giornalista è molto più nobile, consistendo nella ricerca intelligente e rischiosa della verità.
Queste riflessioni sul ruolo e la responsabilità del giornalista dovrebbero essere all’ordine del giorno nel dibattito sulla televisione pubblica, la cui legittimazione non può essere disgiunta dalla sua capacità di essere obiettiva nel mostrare la realtà e nel cercare di avvicinarsi quanto più è possibile alla sua comprensione, alle sue dinamiche spesso segnate da contraddizioni, chiaroscuri e verità spiacevoli soprattutto quando queste smentiscono le nostre convinzioni o addirittura i nostri interessi.
Questi principi dovrebbero ispirare i giornalisti dovunque essi operino, nei giornali come nella televisione commerciale; ma alla Rai, in particolare, l’attitudine all’obiettività prima ancora che un principio deontologico dovrebbe essere una vocazione. Così è stato ai tempi delle leggendarie inchieste di Sergio Zavoli (Nascita di una dittatura, La notte della Repubblica, ecc.), veri e propri “trattati” di giornalismo televisivo; così è stato con le inchieste di Tv7 e, subito dopo la riforma del 1975, con programmi come “Primo piano” e “Cronaca”, una rubrica della Rete 2 che si distingueva per il metodo adottato: al fine di rendere più obiettiva e approfondita l’indagine sulla realtà, una delegazione dei protagonisti della vicenda oggetto dell’inchiesta (operai, terremotati, malati di mente, detenuti, ecc.), si univa al gruppo di giornalisti e tecnici della Rai, per partecipare a tutte le fasi della realizzazione, dalla stesura della scaletta fino alla ripresa e al montaggio. Questa gloriosa tradizione - che, nonostante il vento contrario, approda fino ai giorni nostri grazie al lavoro esemplare di giornalisti come Roberto Morrione, Milena Gabanelli e Corrado Iacona - merita di essere riabilitata; un compito che spetta, in primo luogo, al servizio pubblico nella consapevolezza che, al pari della sociologia e dell’antropologia, il giornalismo - prima ancora che un “mestiere” - è una disciplina.


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