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Leone bianco, leone nero, carcere, “erba”. Una storia di ordinaria assurdità
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di Valter Vecellio

Leone bianco, leone nero, carcere, “erba”. Una storia di ordinaria assurdità

Sull’ “Unità” Sandro Favi, parlamentare del PD che per il suo partito si occupa di carceri, annuncia di aver aderito “con convinzione all’appello promosso da Rita Bernardini e da diverse associazioni per la convocazione straordinaria del Parlamento di fronte alla drammatica situazione delle nostre carceri”. E’ un’adesione importante, significativa, che fa presumere un impegno del PD in questo senso. “Se il governo”, scrive Favi, “accetterà di venire in Parlamento per discutere e individuare soluzioni praticabili per risolvere i problemi che affliggono il carcere noi saremo attenti alle proposte che ci verranno avanzate e metteremo a disposizione di tutti le nostre proposte e le nostre idee”.
   Sono affermazioni e assunzioni di impegno che confortano. Sul verdante delle iniziative, se ne possono suggerire alcune. Che so, cominciare con il chiedere e mobilitarsi per l’abrogazione di leggi criminogene come la Bossi-Fini sull’emigrazione, e la Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze.
   Una lettura che certo gioverebbe a ogni nostro parlamentare – perfino, lo so è un sogno, a un tipo come Carlo Giovanardi – è quella di “Leone bianco, leone nero” (LG Edizioni, pagg.284, 14,90 euro). L’ha scritto un ragazzo siciliano di Caltanissetta; scrive bene questo ragazzo, ma non è sulla qualità della sua scrittura che si richiama l’attenzione. Piuttosto sulla storia che racconta, la sua storia. La storia che gli è capitato di vivere, e che è storia accaduta a tanti altri ragazzi. La storia di un giovane che un giorno viene arrestato. Forse una spiata; forse chissà, una chiamata in correo da parte di qualcuno che mostrandosi “pentito” ha pensato di alleggerire la sua posizione penale.
   Non è solo un diario di quello che crolla addosso a quel ragazzo. E’ il racconto di un mondo che appartiene al nostro mondo, e che tanti preferiscono ignorare.
   L’autore di questo libro si chiama Giuseppe Nicosia. Possiede una casa in campagna, ci va lui solo. Ci sta bene, ma soprattutto ci ha piantato marijuana, perché ogni tanto ama farsi una “canna”;  pensa che è meglio prodursela invece che andarla a comperare dagli spacciatori, che oltretutto danno anche roba di discutibile qualità.
   Giuseppe ci sa fare con le piante, ha studiato botanica; oppure è fortunato, il clima e il terreno sono favorevoli… Come sia, da quei semi piantati, vengono fuori una quantità di piante, “roba” di ottima qualità. Giuseppe, che “fumando” una “canna” non fa un soldo di danno, se non quello che fa chiunque contro se stesso come fa chiunque si fumi una sigaretta di tabacco “autorizzato”, andrebbe semmai ringraziato: perché facendosi piccolo coltivatore per uso personale non contribuisce ad arricchire gli spacciatori, i piccoli e i grandi mafiosi della zona. Anzi: vuoi vedere che a denunciarlo forse sono stati proprio loro? Vedi mai se prende piede, questo “fai da te”, addio guadagni...
   Come sia, Giuseppe viene considerato anche lui uno spacciatore, e anche se non ha mai spacciato, gettato in galera. I magistrati - è una delle più emblematiche pagine del libro – gli chiedono di spiegare come mai in quella sua proprietà di campagna ci sono tante piante; perchè sono venute su, risponde Giuseppe. Risposta sbagliata: l’unica spiegazione che viene accettata è che Giuseppe è uno spacciatore, pianta per vendere; perchè non è possibile, insomma, che tutte quelle piante siano per uso personale, o al massimo, per “uso” con amici. Meglio confessare e fare i nomi dei complici, fanno capire a Giuseppe magistrati e anche l’avvocato difensore. Ma Giuseppe non ha nulla da confessare, nulla da dire, niente da ammettere. Ah no? E allora niente libertà, niente arresti domiciliari. Resti in carcere.
    Giuseppe non è pregiudicato. Non risulta in alcun modo schedato, è insomma “pulito”. Non conta. Non sappiamo che tipo di indagini abbia fatto il magistrato, prima di stabilire quello che stabilisce; Giuseppe non ne parla, ma probabilmente non sono state effettuate né intercettazioni telefoniche né altro tipo di indagine, nei conti correnti bancari, o pedinamenti, o che. Semplicemente non è credibile che uno pianti dei semi, il raccolto sia buono al di là delle aspettative, e quel raccolto sia finalizzato semplicemente per “uso personale”. Non è credibile; e comunque il giudice non ci crede, e la credenza diventa così un elemento sufficiente perché Giuseppe resti per due mesi in carcere. Ed è, per Giuseppe, la scoperta di un “mondo” dove vivono il “Buono”, il “Cattivo”, il “Bello”; e poi il “Biondo”, lo “Stecco”, “l’Albanese”, il “Modello”… Ci sono i capi-bastone cui bisogna avere e mostrare rispetto, le regole non scritte della cella e del cortile; le assurdità, come la fatica di riuscire a dotare la biblioteca del carcere di qualcuno che la tenga in ordine…
   Non c’è una parola fuori posto in questo lungo racconto, che descrive giorno dopo giorno, ora dopo ora, l’assurdità di questo sistema penitenziario, ma lo fa senza proclamare alcunché, senza particolari enfasi, nessuna invettiva: semplicemente sono le cose, i “fatti” che parlano, e non c’è bisogno di alcun commento. Anzi, proprio il tono apparentemente dimesso, a volte perfino didascalico è la forza, l’efficacia del libro.
   Peccato solo che nel libro manchi un’appendice che sarebbe stata utile e istruttiva. U’appendice fatta di di documenti giudiziari: l’atto che dispone l’arresto, i verbali di qualche interrogatorio, i provvedimenti che negano la libertà provvisoria e l’arresto domiciliare…Gli “ordinari” documenti, insomma, di orrori “ordinari” che “ordinariamente” si consumano tutti i giorni...


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