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Il popolo dell'acqua non ci sta
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di Marco Furfaro*

Il popolo dell'acqua non ci sta

Il 13 giugno, in Italia, dopo tanto, troppo tempo, un intero Paese, o comunque la sua stragrande maggioranza, festeggiava la fine di un ciclo e la riapertura di un altro, nuovo ed entusiasmante. Il risultato del voto referendario non era semplicemente il tecnicismo di un voto, un’abrogazione di una legge, un cavillo che si sostituiva ad un altro per determinare un’ipotesi piuttosto che un'altra. Era molto di più.
Era un protagonismo mai visto prima, una mobilitazione appassionata di cittadini che volevano scegliere. Scegliere. Contro le perplessità della politica, contro il racconto dell’opinione pubblica sulla modernità delle privatizzazioni e la preistoria dell’acqua bene comune. Una scelta – politica, squisitamente politica – che ha indicato al Paese la direzione da prendere, segnato un percorso, messo fine ad un’epoca e posto le basi per l’inizio di una nuova.
Non era la vittoria solo di un movimento, era la vittoria di tutti coloro che avevano sentito la necessità di stamparsi un volantino e distribuirlo nel condominio, di chi cercava di convincere il vicino, di chi ne parlava al mercato. Quel referendum, quella scelta – l’acqua come bene comune – in tanti, tantissimi se la sentivano addosso, toccava la propria quotidianità e la prospettiva del futuro. Si trattava, per tutti noi che ci siamo mobilitati, di scegliere in che mondo stare, vivere e guardare al domani. Un mondo in cui la titolarità del bene più prezioso non poteva essere lasciato a uno solo, privato cittadino o multinazionale che fosse.
Questo è stato il voto referendario. Non semplicemente la scelta sulla privatizzazione o meno dei servizi idrici, ma la prepotente messa sulla scena di un concetto chiave: ci sono beni che non possono essere trattati come semplici merci e i cui modi di erogarli non possono essere privatizzati perché sono connaturati alla stessa nostra esistenza, fanno parte di noi e come tali non possono essere oggetto di lucro.
Pochi mesi dopo, in pochi avrebbero creduto che a mettere in discussione una scelta epocale come quella del giugno scorso fosse il governo della tanto decantata unità nazionale. Invece, con un cavillo all’interno del decreto quadro sulle liberalizzazioni, è proprio il governo Monti, il governo dei tecnici, che cerca aggirare il referendum e 26 milioni di italiani.
Sembra così che l’attuale governo voglia arrivare dove nemmeno Berlusconi  è riuscito. Quest’ultimo, nell’agosto dell’anno scorso, reintrodusse, in contrasto con l’esito referendario, meccanismi concorrenziali e logiche di mercato per l'affidamento dei servizi pubblici locali, ma non riuscì ad inserire tra questi i servizi idrici. Esattamente ciò che sta per accadere grazie al governo Monti, intenzionato a reintrodurre le privatizzazioni anche nel settore dell’acqua.
Ci sarebbe molto da discutere nel merito della questione e sull’opportunità di inserire norme che metterebbero l’acqua e la sua erogazione in mano a grandi multinazionali creando di fatto monopoli privati di mercato. Sarebbe utile dissertare sui motivi per i quali attraverso questo cambio di rotta si creerebbe sviluppo, ricchezza e ci si avvicinerebbe all’Europa (quale Europa? Quale modello di sviluppo? e ricchezza per chi?).
Ma c’è una questione ancora più importante che il governo, cercando di rovesciare il risultato referendario, mette in discussione: la democrazia. Il referendum è uno strumento di democrazia diretta. Irriderne il risultato, come stanno facendo alcuni Ministri attraverso dichiarazioni improvvide, è dannoso per l’idea stessa di Stato di diritto e per il rapporto dei cittadini con le sue istituzioni. Pensare che il voto sia stata la conseguenza di una superficialità diffusa o di semplice paura è un abbaglio che questi illuminati professori dovrebbero sapere bene.
Il governo ha finora presuntuosamente rifiutato il confronto con i movimenti, le rappresentazione sociali, persino il dibattito pubblico. Al contempo, il Movimento per l’acqua ha raccolto ventimila firme in poche ore per chiedere al governo di “abbandonare la strada delle liberalizzazioni per quanto riguarda il servizio idrico” come recita l’appello.
Piccoli segnali. Ma che contrappongono due visioni diverse di salvare l’Italia e l’Europa. Da una parte i diktat della Banca Centrale Europea, di Berlino, delle privatizzazioni imposte e dei tecnici dalla faccia pulita. Dall’altra l’Italia dei beni comuni, del cambiamento di modello. L’Italia che propone altri occhiali da vista per guardare all’Europa e per ricostruire un sogno comune Europeo diverso da quell’incubo pensato dai signori in doppiopetto che hanno portato il Vecchio Continente da vanto nel mondo a centro della più grande crisi del secolo.
Abbiamo il dovere di difendere il risultato del referendum, non solo per difendere l’acqua bene comune. Ma soprattutto perché quel referendum dimostrava a tutti – partiti, sindacati, lobby, imprese, movimenti – che quando vuole un popolo prende la parola e decide. Senza filtri, senza condizionamenti. Avvalendosi semplicemente degli strumenti della democrazia. Questo nessuno può metterlo in discussione, né la tecnica né la politica. Quel popolo ha fatto una scelta precisa e democratica, ha dato una prospettiva precisa al paese. Tecnici, professori, banchieri, imprese ed illustri opinionisti possono essere in disaccordo e pensare che non sia giusta. Bene. Siamo in democrazia. Ma se la democrazia diventasse la dittatura di pochi tecnocrati illuminati avremmo perso ben più della privatizzazione dei servizi idrici. Avremmo perso tutta la credibilità che uno Stato può avere verso i suoi concittadini.
Il governo Monti esca fuori dalle stanze in cui si è trincerato e rispetti la volontà del popolo che rappresenta. Perché quel popolo, il popolo dell’acqua, del no al nucleare, dei beni comuni c’è ancora, non è sparito. E se necessario, tornerà a riempire le piazze. Anche solo per ricordare a qualche professore smemorato il concetto di democrazia.

* Presidenza SEL

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