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Articolo 21 - INTERNI
Un Cancelliere, non un Chavez
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di Federico Orlando

Un Cancelliere, non un Chavez    Una volta i governi “esportavano” le crisi facendo una guerra. Un metodo meno cruento, ma della medesima logica, è distratte il popolo dalla crisi che lo angustia, dall'incapacità di affrontarne i nodi politici, dandogli in pasto le riforme istituzionali. Berlusconi l'ha fatto sette giorni prima delle  regionali, a piazza san Giovanni: 1) varo dei  decreti attuativi del federalismo, senza badare a spese (devastazione del sud) e al rischio per la prima volta concreto di secessione; 2) elezione diretta di un presidente della repubblica-capo del governo, che lo porti al Quirinale con una forma inedita di governo: né americano, per i troppi limiti che a Obama sono imposti dalla separazione dei poteri (congresso, corte federale, ecc.), né francese, dove la legge elettorale maggioritaria a due turni – sulla quale Debré fondò la repubblica di De Gaulle - può giocare scherzi tremendi. Come nelle regionali che precedettero le nostre. O come al tempo delle cohabitation, quando, durante la monarchia di Mitterrand, vinse le elezioni parlamentari Chirac, sicché presidente socialista della repubblica e capo conservatore del governo facevano la gara a prendere l'aereo per arrivare primo all'incontro internazionale.  Dal Quirinale, arredato col mobilio di Palazzo Chigi, Berlusconi vuol contemplare il potere da solo, capo dello stato e capo del governo (ma Calderoli lo corregge: Berlusconi al Quirinale, un leghista vero o di complemento a Palazzo Chigi). E vuol arrivarci prima della scadenza di Napolitano, come nel passaggio dalla quarta alla quinta repubblica francese. De Gaulle si presentò all'Eliseo e il presidente Coty gli consegnò le chiavi del palazzo (ma Calderoli  corregge: se ne parla nel 2013, alle scadenze naturali della legislatura e del settennato).
       C'è un modo, oltre questo della Lega, per tentare di impedire la scimmiottatura peggiorativa del presidenzialismo?  Uno solo, anche se piace poco, per quel poco che capisco io, a una parte del Pd: che ancora si comporta come avesse alle spalle le immense pianure russe, quelle che consentirono a Kutuzov di ritirarsi di fronte a Napoleone senza combattere, finché sopraggiunse l'inverno a congelare La Gande Armée. Il modo che mi piacerebbe è quello di combattere virgola dopo virgola, in parlamento e nel paese, durante la prima e la seconda “lettura”, e impedire che la riforma raggiunga i due terzi dei voti; poi, preparare il popolo per il referendum confermativo, gazebo contro gazebo, con un solo manifesto: “Volete che un uomo solo comandi l'Italia come un dittatore?” Se il popolo dirà sì,  come disse a Hitler, ci rassegneremo. Ma illudersi di aggiustare il disegno con collaborazioni oneste nella forma e fraudolente nella sostanza, equivarrebbe in primo luogo a disarmare le stesse forze di resistenza nel “partito trasversale”, come Bossi ha definito il matrimonio Lega-Pdl.
         In secondo luogo equivarrebbe a distruggere quel po' di ricompattamento dell'opposizione che,  senza incubi neounionisti, s'è intravisto nelle elezioni regionali. S'è detto, dopo la relativa sconfitta del Pd, che classi dirigenti nuove non nascono se manca un progetto di costruzione del paese. L'occasione per dar corpo al progetto ora c'è, scatenando un  battage sulla priorità – ricordata da Enrico Letta - dell'economia e del lavoro rispetto alle riforme istituzionali, non tollerando che l'incapacità della destra di risolvere quelle priorità sia “esportata” avventurandosi nelle seconde, come ai tempi delle guerre di distrazione. Inoltre, combattendo senza compromessi tutte le battaglie “minori” che la destra dovrà affrontare mentre s' immerge nell' avventura istituzionale: e cioè riforma della giustizia, che dobbiamo volgere a favore di chi aspetta le sentenze anziché di chi vuole eluderle e vuole pm asserviti e organi di garanzia addormentati; riforma delle intercettazioni, a garanzia del cittadino incolpevole e di una libertà di stampa riguardosa del cittadino, e non per favorire il malaffare telefonico di bande governative, finanziarie e mafiose; battaglia sulla Rai, per contrapporre ai prevedibili nuovi editti bulgari la fuoriuscita dei partiti dalla gestione del servizio pubblico; questioni “eticamente sensibili” - dalla Ru 486 al testamento biologico al divorzio breve alla maternità assistita, eccetera – per ristabilire i confini tra stato e chiesa, ormai stracciati perfino con anatemi ad personam ai candidati.  O si chiamano gli italiani a una lotta che possiamo perdere , ma ci qualifica, o rinunciamo per un'altra generazione a creare le condizioni elementari dell'alternativa.
        Il Pd deve denunciare il gioco cinico di chi ha spinto l'Italia sull'orlo del secessionismo, che potrebbe fare un ulteriore passo l'anno prossimo con la conquista di Milano; e adesso, proponendo equilibri istituzionali più forti, chiede di essere trasferito sul colle  con pieni poteri. Nessuno aveva poteri più pieni di Tito, eppure la repubblica federativa di Jugoslavia andò in frantumi perché nessuno aveva liberato serbi, croati e sloveni da  quel veleno separatista che Willson s'era illuso di superare a Versailles col suo laboratorio unionista. Allo stesso modo, nessuno, da Fini a Berlusconi, per parlare delle responsabilità della destra, incrementate tuttavia dall'insipienza della sinistra nella politica dell'immigrazione e del centralismo burocratico, ha saputo cancellare dalla fantasia nordista il mito delle tre “macroregioni” di Miglio, Padania Etruria e Sud. Macroregioni, ossia microstati, come sull'altra sponda dell'Adriatico. Il bilancino sapiente dello”schema Violante”  non basta più: si tratta di contorni, tutti necessari, ma solo contorni. Il piatto forte, da contrapporre  al presidenzialismo di un uomo solo al potere e al federalismo fiscale di regioni che hanno già rovinato il paese col loro malgoverno, possono costituirlo solo formule altrettanto popolari, cioè spendibili:  quali  il cancellierato (espressione forte di un parlamento forte) e la gestione stato-lander della finanza (“modello tedesco di tassazione forfettaria”, ancora Calderoli). Essi hanno consentito alla Germania non solo di diventare una delle maggiori potenze economiche del mondo, ma di mantenersi tale anche quando la riunificazione con  l'Est, più fulminea dell'impresa di Garibaldi, aprì una voragine altrettanto grossa di quella aperta negli equilibri italiani dall'arretratezza e dalla naturale povertà del Mezzogiorno. Ripeto: andare allo scontro istituzionale con un modello di due sole parole. Il resto è confusione e perdita di tempo. 

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