Clicca qui per il nuovo sito di Articolo 21 »
Ricerca con Google
Web articolo21.info
 
 
Articolo 21 - Editoriali
DOCUMENTI - La relazione del segretario Ds al consiglio nazionale
Condividi su Facebook Condividi su OKNOtizie Condividi su Del.icio.us.

di Piero Fassino

Vorrei che cominciassimo i nostri lavori esprimendo ancora una volta, al popolo e al governo britannico, la nostra solidarietà e il nostro dolore, ma anche la nostra ammirazione.

La dignità e la compostezza della quale hanno dato prova i cittadini di Londra il tragico 7 luglio scorso, non è solo una straordinaria prova di maturità civile: è anche una precisa e chiara risposta politica alla sfida del terrorismo.

Eâ?? un terrorismo diverso da quello che abbiamo conosciuto in Italia e in Europa negli anni â??70 e â??80. Allora il terrorismo sceglieva la sua vittima â?? un carabiniere, un agente di polizia, un giornalista, un sindacalista, un magistrato, un dirigente dâ??azienda â?? per il suo significato simbolico e puntando a isolarla dalla società.

Oggi il  terrorismo ha unâ??altra strategia: puntare alla massima devastazione, alla più lacerante destabilizzazione, a mettere in ginocchio una comunità e la sua convivenza.

Non conta chi sia la vittima. Conta che siano, tante, tantissime e, soprattutto, persone â??normaliâ?, colpite nella loro quotidianità di vita. Come gli impiegati degli uffici delle Twin Towers; o gli operai che con il metrò di Madrid si recavano in fabbrica; o i turisti che, ignari della tragedia incombente, cercavano qualche giorno di svago in vacanza a Mombasa o Bali; o gli indifesi bambini di Beslan; o i cittadini inermi uccisi sui bus e nel metrò di Londra.

Ha detto tra le lacrime il sindaco di Londra, Ken Livingston: «Questo non è un attacco ai potenti, ai primi ministri e presidenti. Questo è un attentato a normali cittadini di Londra, lavoratori, donne e uomini, bianchi e neri, cristiani e musulmani, indù ed ebrei, giovani e vecchi».

Se, dunque, il terrorismo, come dice la parola stessa, vuole spargere terrore, diffondere la paura, alimentare l'insicurezza e provocare una risposta irrazionale, bisogna riuscire a fare l'esatto contrario: mantenere la calma e non smettere di ragionare.

E' quanto hanno saputo fare i londinesi, in questi giorni. "Non ci cambierete", ha detto la Regina ai terroristi. "Non vi lasceremo cambiare il nostro modo di vivere", ha detto Tony Blair. "Non diventeremo come voi, come voi vorreste che diventassimo", hanno detto, con la loro perfino ostentata imperturbabilità, milioni di abitanti della metropoli più multicolore, multiculturale, multireligiosa del pianeta.

I cittadini di Londra ci trasmettono la consapevolezza che il terrorismo, con la sua terribile, casuale potenza devastatrice, che può mietere vittime ovunque e in qualsiasi momento, è un fatto endemico della nostra società, col quale dobbiamo attrezzarci a convivere a lungo e dolorosamente.

Ma attrezzarci a convivere, ci dicono gli inglesi, non significa rassegnarci a subirne passivamente l'iniziativa. Bisogna essere pronti a reagire nel modo giusto, sia nell'immediato, evitando il panico, sia nel tempo, assorbendo l'urto, metabolizzandolo, evitando reazioni divisive e intolleranti, che involontariamente ci porterebbero a collaborare col criminale disegno del terrorismo.

La prima risposta, quella immediata, è compito di una statualità efficiente e diffusa, che deve trasmettere ai cittadini la certezza che saranno tutelati e tutto si farà per ridurre il rischio a cui possono essere esposti.

Abbiamo apprezzato il tono misurato del discorso del Ministro Pisanu. Ci aspettiamo adesso che seguano misure coerenti, a partire dal prevedere nel DPEF e nella successiva Legga Finanziaria risorse adeguate, invertendo la tendenza di questi anni a ridurre gli stanziamenti per la sicurezza.

Si renda pienamente operativo tutto ciò che le leggi già prevedono. E se il Governo ritiene necessarie altre misure le porti in Parlamento: non troverà sordità o indifferenza perchè tutelare la incolumità e la serenità dei cittadini è obiettivo di comune condivisione.

E riconfermiamo anche da questa tribuna che lâ??opposizione è pronta a fare fino in fondo la propria parte, concorrendo con la sua responsabilità e con le sue proposte alla sicurezza del Paese.

La seconda risposta può venire solo da una società civile matura, coltivata ad un robusto senso civico, presidiata culturalmente, socialmente e politicamente. E questo è anche un compito nostro, è il compito di una grande e radicata forza politica, che ha il dovere, tanto più in una fase difficile e talvolta drammatica, di concorrere ad orientare, a presidiare, ad organizzare.

Naturalmente non è solo questione di reagire bene e compostamente. Bisogna anche prevenire. In primo luogo attraverso una vasta e costante azione di intelligence. L'attentato di Londra, in un paese che ha una leggendaria tradizione in questo campo, ci dice che neppure servizi tra i più efficienti del mondo sono in grado, da soli, di garantire una copertura piena e perfetta.

Molto può e deve essere fatto, in questo campo: a livello europeo e tra Europa e Stati Uniti, per coordinare di più e meglio i diversi servizi nazionali; e anche nel nostro paese, proseguendo in quel cammino di riforma, ammodernamento, riqualificazione dei nostri servizi, che ci ha regalato servitori dello Stato del calibro professionale e morale di Nicola Calipari, a cui va la nostra gratitudine e sulla cui morte chiediamo ancora una volta si faccia piena luce.

Insomma: servono più risorse, serve un coordinamento unitario dei diversi apparati, serve che gli uomini e le donne preposti alla nostra sicurezza â?? in primo luogo uomini dei servizi, forze dellâ??ordine e magistrati â?? non siano lasciati soli.


* * * *

Ma attrezzarci a convivere con questa endemica minaccia alla nostra società significa anche elaborare un giudizio morale condiviso, di ripudio fermo e deciso, della violenza terroristica.

Una violenza cieca, vile e barbara, che non ha nulla a che vedere col presunto "scontro di civiltà": i terroristi non "rappresentano" né l'Islam, né il mondo arabo, ma ne sono piuttosto una scheggia impazzita, come in passato ci sono state schegge impazzite che hanno dato luogo al terrorismo nei paesi occidentali.

Guai a rappresentare lâ??Islam con il solo volto di Bin Laden.
Il mondo islamico sono anche le ragazze e i ragazzi della primavera di Beirut, sono le donne marocchine che hanno conquistato per sé un nuovo codice civile, sono gli otto milioni si iracheni che sono andati a votare sfidando lâ??intimidazione e il ricatto dei terroristi, sono quei religiosi islamici che in Qatar si sono incontrati con rappresentanti delle confessioni cristiane e ebraiche perchè anche dal dialogo interreligioso venga una parola chiara contro il terrorismo e la violenza. E dâ??altra parte abbiamo visto in Irak come la furia assassina colpisce nello stesso modo il giornalista occidentale come lâ??ambasciatore egiziano.

Così come non sono poche le città dei paesi mussulmani da Casablanca a Giakarta, da Jeddah a Istanbul, da Riad a Il Cairo â?? funestate dal  terrorismo. Per non parlare di Baghdad dove quotidianamente il terrorismo miete vittime.

Proprio perché, come ci hanno insegnato i londinesi, non dobbiamo assecondare la strategia del terrorismo, dobbiamo riuscire a distinguere tra il terrorismo di matrice islamica da una parte e il mondo arabo-musulmano dall'altra: se una scheggia impazzita di quel mondo ci ha dichiarato guerra, non significa che quel mondo in quanto tale lo abbia fatto. Al contrario, il terrorismo colpisce proprio perché vorrebbe spingerci tutti, allo scontro totale tra civiltà, alla guerra tra "fedeli" e "infedeli".

Ciò non significa che il terrorismo nasca dal nulla. Il terrorismo nasce sempre da una difficoltà politica, dalla quale trae alimento e nella quale cerca legittimazione. Il terrorismo di matrice islamista trae alimento e cerca legittimazione in quella che è stata definita la "frustrazione" del mondo arabo-musulmano, per il crescente divario, in termini di sviluppo umano, che lo separa dall'Occidente.

Con questa frustrazione dobbiamo fare i conti, in termini politici. Ma essa non può né giustificare, né legittimare il terrorismo: il quale ha come bersaglio non i torti dell'Occidente, ma le sue ragioni; non i nostri errori, ma i nostri valori.

Anzi, quanto più la globalizzazione abbatte confini, frontiere e distanze, favorisce lâ??apertura dei mercati e lâ??intensificarsi delle comunicazioni, diffonde conoscenze e crea così condizioni più favorevoli alla democrazia, ai diritti, al pluralismo culturale e religioso, tanto più il fanatismo terrorista tende a colpire nel disperato tentativo di sbarrare la strada allâ??affermarsi di valori di  libertà.

Il terrorismo odia la libertà, la democrazia, il pluralismo, la tolleranza, la convivenza pacifica. Per questo odia l'Occidente. Per questo odia e disprezza gli stessi arabo-musulmani che in Occidente vivono e dell'Occidente, proprio come noi, amano la libertà, la democrazia, il pluralismo, la tolleranza, la convivenza pacifica.

Sono queste le ragioni per cui occorre ricostruire quella â??coalizione mondiale contro il terrorismoâ? che rappresentò la risposta democratica, solidale, unitaria della comunità internazionale allâ??attentato delle Twin Towers.
Allora gli Stati Uniti chiesero al mondo di non essere lasciati soli. E il mondo giustamente accolse quellâ??appello nel comune impegno contro il regime talebano dellâ??Afghanistan e i santuari di Bin Laden lì ospitati.

Poi la vicenda irachena ha incrinato quella coesione, ha ridotto lâ??impegno comune, ha allentato vincoli di solidarietà, ha alimentato divisioni.
E si è ridotta lâ??efficacia della lotta al terrorismo, apparsa più come un problema americano che come unâ??insidia per il mondo intero.

Madrid prima e Londra oggi, invece, ci dicono che il terrore non distingue tra americani ed europei. Così come i tanti attentati che â?? come stazioni di una terribile via crucis â?? hanno sconvolto la vita di tante nazioni,  dimostrando come nessun luogo e nessun cittadino è al riparo dallâ??insidia mortale del terrorismo.

Servono i servizi, la polizia, una vasta e coordinata azione dellâ??intelligence capace di individuare le organizzazioni terroristiche, di colpirne le cellule, di  reciderne complicità, di intercettarne finanziamenti. E certamente non va esclusa la possibilità di un uso mirato e proporzionato della forza; ma non la guerra unilaterale, non la tortura, non Guantanamo.

Il terrorismo può essere combattuto efficacemente, solo se non si smarriscono le ragioni che lo rendono irriducibilmente alieno rispetto alla comunità civile: e tra queste ragioni c'è il rispetto della legalità internazionale, il principio che non si può usare la forza senza una giusta causa, riconosciuta come tale dalla comunità internazionale.

Ma soprattutto serve non rinunciare allâ??uso della politica.
Come abbiamo detto al Congresso, più che la guerra preventiva, serve la â??politica preventivaâ?.

Politica preventiva per affermare i diritti civili e umani e la loro universalità in ogni contesto e prima di tutto là dove oggi sono negati.
Politica preventiva per favorire il dialogo di civiltà, di culture, di religioni, dimensione essenziale per un mondo sicuro.
Politica preventiva per lottare contro il terrorismo e riportare nel circuito della parola â?? cioè della democrazia e della politica â??  chi, sentendosi escluso e negato nelle sue attese, crede di essere riconosciuto ricorrendo alla violenza e al terrorismo.
Politica preventiva per combattere davvero e con determinazione ogni forma di oppressione e con essa la fame, la povertà, le malattie, lo sfruttamento e la tratta delle donne e dellâ??infanzia, il sottosviluppo.

Una politica che sostenga e incoraggi il processo di pace in Medio Oriente e colga le nuove opportunità che si sono aperte con la formazione del Gabinetto Sharon-Peres, la elezione di Abu Mazen e il ritiro da Gaza.
Una politica che convinca le autorità di Teheran a fornire al mondo quelle garanzie necessarie a evitare i rischi di destabilizzazione che deriverebbero da una corsa all'armamento nucleare da parte dell'Iran.
Una politica che incoraggi le riforme e i processi di apertura e secolarizzazione in atto in molto paesi islamici.

****


E serve una politica di stabilizzazione dell'Irak.

La guerra in Irak non è la causa del terrorismo, perché il più grande e grave attentato terroristico della storia, l'attacco a New York e al Pentagono, è stato compiuto l'11 settembre 2001, un anno e mezzo prima della guerra in Irak.

Ma la guerra in Irak, combattuta in nome della sicurezza, contro il rischio, mai effettivamente provato, di un collegamento tra terrorismo e armi di distruzione di massa, non solo non ha reso il mondo più sicuro, ma ha fatto del labirinto irakeno forse la principale piattaforma operativa del terrorismo internazionale. E ha favorito il diffondersi nelle società islamiche di rancorosi umori antioccidentali, riducendo lâ??isolamento del terrorismo e indebolendo il contrasto alla sua azione.

La guerra in Irak si è dimostrata un'avventura, dalla quale tuttavia oggi si può uscire in avanti, aiutando il popolo irakeno a trovare la via della pacificazione interna, dell'autogoverno democratico, della ricostruzione e dello sviluppo.

Il 2005 è un anno cruciale.
Ci sono state le prime elezioni libere; Presidente dellâ??Irak è stato eletto il leader democratico curdo Jalal Talabani, rappresentazione significativa del carattere multietnico e federale del nuovo Irak; si è formato un nuovo governo che punta al coinvolgimento di tutte le comunità, anche quella sunnita, favorendone così il distacco da qualsiasi contiguità con il terrorismo.
Entro agosto deve essere varata la nuova Costituzione che sarà sottoposta a referendum in ottobre; e a fine anno  saranno indette le elezioni politiche per il Parlamento. Sono le tappe istituzionali previste dalle Risoluzioni ONU che spirano il 31.12.2005.

Dal gennaio 2006 si aprirà, dunque, la fase finale della transizione che dovrà essere caratterizzata dal superamento dellâ??attuale occupazione militare, con lâ??eventuale dispiegamento di una forza multilaterale di peace-keeping promossa dallâ??ONU, dal trasferimento dei poteri alle autorità irachene, da un ruolo centrale dellâ??ONU, dalla realizzazione dei programmi di ricostruzione economica varati dalla Conferenza di Bruxelles del giugno scorso.

E', insomma, necessario e decisivo ricondurre la crisi irakena nell'alveo del multilateralismo. E passare dalla dimensione militare a quella politica. A questo obiettivo può e deve impegnarsi l'Unione europea, superando le divisioni che lâ??hanno lacerata nella fase della guerra.

Per questo facciamo nostra lâ??indicazione del Parlamento Europeo che chiede una forte iniziativa europea per un pieno coinvolgimento delle Nazioni Unite in Irak e per una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza che delinei un piano di sostituzione delle truppe straniere di occupazione con una forza di mantenimento della pace dellâ??ONU e una strategia per il completamento della transizione.

Eâ?? in tale contesto che va definito anche lâ??impegno attivo con cui il nostro Paese intende caratterizzarsi nei prossimi mesi e soprattutto in vista della nuova fase.

I DS hanno sempre cercato di contribuire ad una soluzione politica della crisi irakena fin dal luglio 2003, quando ospitammo a Roma una importante conferenza dellâ??Internazionale Socialista per il futuro dellâ??Irak e la pace in Medio Oriente che riunì decine di esponenti di tutte le forze politiche del dopo Saddam, tra i quali molti che oggi  hanno assunto responsabilità di governo a Baghdad.

Non abbiamo ragione di cambiare il nostro giudizio sulla guerra in Irak, nè dunque di cambiare il voto in Parlamento.
Non per questo vogliamo eludere la responsabilità di indicare una strada per come cambiare, radicalmente, la situazione in Irak.

Per questo  chiediamo al governo italiano un exit strategy che programmi tempi e modi del rientro dei soldati italiani e, al tempo stesso, configuri con quali nuovi impegni lâ??Italia concorra al compimento della transizione irakena.

Dâ??altra parte già 10 paesi hanno disposto il rientro dei loro contingenti, mentre Polonia e Ucraina lo realizzeranno entro dicembre di questâ??anno. E peraltro lo stesso Governo italiano non esclude ormai questa eventualità, come dimostra lâ??annuncio di Berlusconi di un primo rientro di 300 soldati.

Porre il tema del rientro dei nostri soldati non significa ritrarsi da responsabilità che possono essere perseguite in altro modo: rafforzando la presenza di un ampio contingente di carabinieri â?? come in Bosnia â?? per la sicurezza e lâ??addestramento della polizia irakena; ampliando il numero delle missioni civili italiane impegnate nellâ??opera di ricostruzione; dando disponibilità a partecipare a una forza di peace-keeping promossa dallâ??ONU per lâ??eventuale sostituzione delle attuali truppe di occupazione.

Nessun paese può sottrarsi alle responsabilità che gli derivano dallâ??essere parte della comunità mondiale.
E il centrosinistra, tutto, deve essere consapevole che candidarsi alla guida del Paese significa assumersi responsabilità, tanto più quando siano difficili.

Dâ??altra parte, dei 9.000 soldati italiani oggi impegnati in teatri di conflitti, 6.000 vi sono andati con lâ??esplicito e convinto nostro sostegno.
La nostra non condivisione della presenza italiana in Irak, non significa ignorare che in politica lâ??uso della forza può essere un estrema necessità; né può autorizzare a ridurre lâ??impegno italiano per favorire pace, stabilità, diritti là dove sono negati o insidiati.

Per questo ci appare francamente non comprensibile lâ??atteggiamento di quei settori del centrosinistra che, ancora in questi giorni, hanno votato in Parlamento contro le missioni di pace decise dalle Nazioni Unite e sotto la sua egida operanti â?? come in Bosnia, Macedonia, Kossovo, Medio Oriente, Afghanistan â?? o addirittura umanitarie, come in Darfour.

Ci auguriamo che davvero vi sia nei nostri alleati una riflessione seria su questi temi e che fin dal prossimo esame parlamentare di tali missioni, alla fine del 2005, si possa acquisire un atteggiamento nuovo, capace di consolidare la affidabilità politica dellâ??intero centrosinistra.

* * * *

Una nuova forte iniziativa internazionale contro il terrorismo e per lâ??affermazione universale dei diritti e della democrazia ha bisogno di una Unione Europea che ritrovi la sua unità e un suo protagonismo.

Solo un'Europa unita può infatti favorire il superamento, da parte degli Stati Uniti, delle tentazioni di tipo unilateralistico, come si è cominciato a vedere, anche se in modo troppo timido, al G8 di Gleneagles.

Ma è vero anche il contrario: un'Europa più attenta al mondo, più consapevole delle grandi sfide del tempo presente, più impegnata sulla frontiera della pace, del dialogo tra le culture, della cooperazione tra i popoli, può anche più facilmente ritrovare le ragioni della sua coesione interna, della difficile costruzione della casa comune.

Il No francese e poi olandese alla ratifica del Trattato costituzionale hanno reso evidente una crisi di consenso e di condivisione dellâ??opinione pubblica verso il processo di integrazione europea.

Una crisi che sarebbe errore grave pensare di risolvere ponendo in discussione l'idea stessa di integrazione e ripiegando sulla rinazionalizzazione e sul protezionismo, anche perché per i popoli d'Europa, per il loro destino nel mondo, non c'è una strategia di ricambio.

Senza l'unità politica e istituzionale, oltre che economica e monetaria, nessuno dei paesi europei può sfuggire ad un destino di marginalità e di irrilevanza nei processi di globalizzazione. Basterebbe pensare allâ??affacciarsi prorompente della Cina sui mercati, per rendersi conto di come nessun paese europeo possa pensare di affrontare da solo la sfida competitiva che viene da Pechino.

Ma la portata della crisi non può neppure essere minimizzata. Il No alla Costituzione non può essere derubricato come un semplice incidente di percorso. Perché il No è stato pronunciato, a grande maggioranza, da due popoli. Perché si tratta di due Paesi fondatori. Perché il testo del trattato costituzionale era già il frutto di un compromesso e come tale aveva già in sé elementi di timidezza, rispetto al livello di integrazione che sarebbe necessario.

Ma soprattutto, e in definitiva, perché la bocciatura della Costituzione interviene in un momento delicatissimo.

Per un verso l'Unione è alle prese con una fase di bassa crescita economica che accredita in non pochi cittadini la convinzione che con lâ??Europa si sia meno tutelati, meno protetti, meno prosperi.

E, per  altro verso, lâ??Unione è alle prese con le attese e le domande dei paesi dell'allargamento, con Bulgaria e Romania alle porte, con l'area balcanica che non può essere abbandonata a se stessa senza correre il rischio di nuovi conflitti nel cortile di casa, e con la Turchia che bussa alla porta e alla quale non possiamo non aprire, per le ragioni dette fin qui a proposito di mondo arabo e musulmano, di terrorismo e di dialogo mediterraneo.

E, invece, lo stop alla Costituzione rischia di essere letto come uno stop dei popoli all'allargamento, come un riflesso di chiusura identitaria e protezionistica pericolosa.

Come se non bastasse, la crisi europea si è ulteriormente complicata con il fallimento dei negoziati sul bilancio comunitario e le spinte di molti governi - non solo quello inglese, anche quello francese e quello tedesco, non quello italiano e ne abbiamo dato atto positivamente - a ridurre drasticamente le risorse dellâ??Unione.

E' in questo scenario critico che si è aperto il semestre di presidenza britannica. Il Primo Ministro inglese, Tony Blair, ha presentato il suo programma al Parlamento europeo con un discorso che abbiamo giudicato positivamente: per il forte accento europeista, come risposta comune alle sfide della globalizzazione; per la conferma della strategia dell'allargamento, contro ogni ripiegamento e ogni chiusura; per la riaffermazione della dimensione politica dell'Europa, che non può essere ridotta ad una sola grande area di libero scambio; per il rilancio di un ripensato e rinnovato modello sociale europeo, contro la riduzione dell'Europa a processo di integrazione solo monetaria.

Le intenzioni sono quelle giuste e indubbia è la forza della leadership di Tony Blair, che con il suo discorso ha lanciato una sfida che deve essere raccolta. E, tuttavia, proprio quella sfida impone allo stesso Blair e al governo inglese di non illudersi che sia sufficiente più â??cooperazione intergovernativaâ?, quando invece quel che è necessario ed urgente è pensare una nuova e più profonda fase dell'integrazione europea.

Quando Tony Blair sollecita ad unâ??Europa che non spenda il 60% del proprio bilancio per lâ??agricoltura e trasferisca più risorse per lâ??innovazione, la formazione, la tecnologia, le grandi reti, dice una cosa giusta, ma che richiede politiche dâ??integrazione più ampie. Perchè la devoluzione di gran parte delle risorse del bilancio comunitario allâ??agricoltura deriva dal fatto che la politica agricola è comunitarizzata. Mentre non lo sono i settori innovativi che costituiscono lâ??asse della strategia di Lisbona.

Naturalmente siamo ben consapevoli che un'Europa a 25, a 27, a 30 e più non può essere governata con gli stessi meccanismi dell'Europa a 15.

Lâ??esito positivo del referendum in Lussemburgo â??  unitamente alle ratifiche già votate in Parlamento o con referendum da altri dodici paesi â?? ci sollecita a non considerare chiusa la prospettiva di dotare lâ??Europa di un Trattato Costituzionale.
E, tuttavia, avvertiamo che il superamento dellâ??attuale passaggio critico richiede un salto di consapevolezza, di qualità, di decisioni.

Il punto da cui partire è l'Euro, la moneta unica di metà dei paesi dell'attuale Unione. Una moneta che ha mantenuto le promesse di stabilità valutaria, della quale tutti i paesi dell'Eurozona hanno beneficiato, a cominciare da quelli monetariamente più fragili, come il nostro.

Ha fatto bene a ricordarlo di fronte al Parlamento di Strasburgo il Presidente Ciampi, a cui va la nostra solidarietà per lâ??indegna gazzarra orchestrata da alcuni deputati leghisti; ma soprattutto al Presidente Ciampi rinnoviamo la gratitudine per essere stato ed essere un sicuro assertore dellâ??integrazione europea e della sua storica necessità.

E' grazie alla stabilità assicurata dall'euro â?? ha giustamente ricordato il Presidente della Repubblica â?? se  un paese come il nostro ha potuto difendersi dai rischi monetari in una fase di alta turbolenza come quella degli ultimi anni; così come è sempre grazie all'euro se abbiamo potuto ridurre drasticamente il costo del denaro e gli interessi sul debito.

E tuttavia, è altrettanto innegabile che l'euro non ha soddisfatto tutte le aspettative in termini di crescita e di sviluppo. Lâ??Europa cresce meno dellâ??economia mondiale. E l'Eurozona cresce meno della media europea.

Non è a causa dell'euro, come è ovvio, che l'Eurozona ristagna, ma perché sono mancate adeguate politiche economiche che ne valorizzassero le potenzialità in termini di crescita.

Molti, infatti, sono ancora gli ostacoli e le barriere che si frappongono alla creazione di un vero, grande mercato unico, nonostante il grande lavoro svolto per dieci anni, alla Commissione europea, da Mario Monti.

Allo stesso modo, l'euro si è affermato, a fianco del dollaro, come valuta internazionale, ma questa forza non si è tradotta in uno strumento di accumulazione che rendesse possibili i grandi investimenti necessari a fare dell'Europa quell'area di forte innovazione che prevedeva la strategia di Lisbona.

Ecco allora i due fronti sui quali rilanciare una politica economica comune, per l'Unione e per l'Eurozona in particolare: una politica della competitività, basata sulle liberalizzazioni e sulla lotta alle rendite di posizione corporative; e, allo stesso tempo, una politica neo-keynesiana, per l'infrastrutturazione fisica e tecnologica, per la ricerca, il sapere, la formazione.

Due aspetti convergenti di una medesima politica economica, volta a porre le basi per una rapida ripresa dello sviluppo in tutta l'Eurozona. Perché se l'Eurozona si mette a correre, tutto il convoglio europeo si rimette in moto: sarà più facile combattere i fantasmi prodotti dalle paure che l'allargamento sta suscitando, così come rilanciare la fiducia nell'integrazione anche politico-istituzionale europea.

Insomma: quel che è mancato è il passaggio da euro e mercato unico ad una reale convergenza delle politiche economiche e fiscali.
Lâ??integrazione monetaria non si è ancora espansa a integrazione economica e questa contraddizione diventa più stridente.

Eâ?? tempo perciò di aprire una â??seconda grande fase dellâ??integrazione europeaâ?, sollecitato proprio oggi anche dallâ??appello di 7 Capi di nazioni europee.
Per farlo occorrono scelte coraggiose che segnino questa volontà.

Si riprenda subito una discussione su come non disperdere il valore di un Trattato Costituzionale, magari separando la prima e la seconda parte â?? i valori, i principi, i diritti su cui si fonda lâ??Unione Europea â?? dalla  terza parte più organizzativa dellâ??architettura istituzionale.

Si anticipi â?? con decisione unanime che può assumere il Consiglio europeo â?? ciò che può essere già sperimentato, come ad esempio il Ministro degli Esteri europeo,  essenziale per dare allâ??U.E. maggiore efficacia e iniziativa in una fase così cruciale per la sicurezza del mondo.

Si lavori ad un ragionevole  compromesso sul bilancio, che assuma le indicazioni che sono venute dal Parlamento europeo, e si affronti la esigenza di dotare lâ??Unione di maggiori risorse proprie, sperimentando la emissione di Eurobonds, finalizzati al finanziamento delle politiche di Lisbona.

Non si deludano le aspettative dei paesi impegnati nel percorso di adesione, confermando lâ??apertura dei negoziati con la Turchia dal prossimo ottobre, le decisioni già assunte per la Croazia e gli impegni individuati a Salonicco per lâ??area balcanica.

Questa a noi pare l'unica via che può consentire all'Europa di fare dell'anno di riflessione, deciso dopo lo shock del doppio No francese e olandese, un tempo di progettazione attiva e non di passiva attesa.

E' una via lungo la quale l'Italia può ritrovare un ruolo e una funzione, dopo anni di confusione strategica: gli anni del governo Berlusconi, gli anni dell'Europa minima del presidente del Consiglio e del ministro Tremonti, gli anni dell'antieuropeismo sguaiato e volgare della Lega Nord.

* * * *

La confusa politica europea del governo Berlusconi è paradigma del fallimento complessivo della Casa delle libertà alla prova del governo del Paese.

Un fallimento che emerge dalla lettura dei "fondamentali" dell'economia italiana: dati ormai incontrovertibili e sotto gli occhi di tutti.

Per la prima volta dopo 31 anni la dinamica del PIL è negativa. Lâ??Italia è un paese a crescita 0 e nessuno  contesta più che vi sia una recessione economica.
La stagnazione, ed oggi addirittura la depressione dei consumi, mette a rischio le imprese orientate alla domanda interna.
La caduta della produttività, segnala un affanno competitivo crescente e inficia gravemente l'unico dato apparentemente positivo, quello sulla crescita dell'occupazione.
La caduta dell'export ha visto dal 2000 ad oggi le esportazioni italiane diminuire del 4,9%, mentre nellâ??area europea sono cresciute del 17,2%, in netta controtendenza rispetto ai nostri principali concorrenti, ad esempio alla Germania, che pur soffrendo con noi per un euro caro, è diventata in questi anni il primo paese esportatore del mondo.

Una crisi resa più acuta dalla assenza di una politica industriale; dalla mortificazione imposta a ricerca, scuola e università; dalla aleatorietà degli investimenti pubblici; dalla cancellazione di qualsiasi politica per il Mezzogiorno. E appare ancora più evidente quanto sia stato irresponsabile alimentare lâ??illusione che con semplici riduzioni fiscali â?? peraltro impraticabili â?? si sarebbe potuto riattivare la crescita.

Alle difficoltà dell'economia reale si sommano quelle della finanza pubblica. L'Italia è tornata fuori dai parametri di Maastricht, sia per il deficit, volato a quota 4,5, che per il debito, salito al 108,3 sul PIL,  mentre si riduce ai minimi termini l'avanzo primario.
Una situazione grave, tanto più preoccupante se si considerano i rischi di un eventuale rialzo dei tassi d'interesse che metterebbero a repentaglio la stessa tenuta della finanza pubblica italiana.

E ancora lâ??altro ieri allâ??Assemblea dellâ??ABI il Governatore della Banca dâ??Italia ha ricordato che senza una serie e vera politica di rientro, deficit e debito rischiano di salire ancora di più.

La crisi dell'economia reale, aggravata dal quadro assai precario dei conti pubblici, sta ormai colpendo duramente il tenore di vita di molte famiglie italiane: cresce l'inquietudine e aumenta la preoccupazione per il futuro. Anche perché cresce la precarietà del lavoro, non più solo per i giovani.

Nel 2001 il ricorso alla cassa integrazione ordinaria era pari alle ore lavorate di 26.000 occupati, nel 2003 a 48.000, nei primi mesi del 2005 a 58.000. La riduzione della disoccupazione, che è tendenza costante dal â??97, è venuta via via esaurendosi e â?? al netto della regolarizzazione di lavoratori immigrati â?? il mercato del lavoro appare stagnante.

Il senso di sfiducia e di preoccupazione è peraltro aggravato dalla continua tensione e dai veri e propri strappi ai quali sono sottoposti settori importanti del nostro sistema istituzionale: dalla giustizia, contro il cui dissesto ancora ieri hanno manifestato i magistrati italiani; al sistema radiotelevisivo paralizzato da una concezione proprietaria che mortifica la RAI e la sua autonomia; fino alla stessa Costituzione, stravolta da una revisione di cui ormai dubitano perfino ampi settori della stessa maggioranza.

Se a questo quadro si aggiunge lâ??avventurismo che ha segnato, come abbiamo già visto, non pochi passaggi di politica estera e la marginalità a cui lâ??Italia è ridotta sul piano europeo e internazionale, si capisce perché il Paese si senta a rischio e risulti sempre più evidente il fallimento politico del governo del centrodestra.

Ma il fatto politico nuovo, il dato che si è andato consolidando sempre di più, è che questa incapacità e questa inadeguatezza sono ormai diventate senso comune, come emerge con chiarezza non solo da tutte le indagini di opinione, ma - quel che davvero conta - dai risultati elettorali.

La clamorosa vittoria del centrosinistra, nella scorsa primavera, in 12 Regioni su 14 - una vittoria che giunge al termine, come sappiamo, di un quadriennio segnato da una progressiva crisi di consensi del centrodestra in tutte le occasioni elettorali che via via si sono avute - ha dato il segno del nuovo senso comune che si è diffuso nel Paese.

Dâ??altra parte la maggioranza di governo offre quotidianamente lo spettacolo di una compagine in profonda crisi.
Il Congresso UDC è stato segnato da una visibile e voluta presa di distanza dallâ??azione di governo e dal modo con cui Berlusconi guida la coalizione. Lâ??Assemblea nazionale di Alleanza Nazionale ha reso manifesto il profondo malessere e la vera crisi di identità di quel partito.
Il nervosismo della Lega è anchâ??esso segnale di una crescente inconciliabilità di opzioni politiche allâ??interno della maggioranza.
La discussione su un partito unico della destra si è presto arenato e la stessa riconferma della leadership di Berlusconi appare tuttâ??altro che risolutiva della crisi della coalizione.

La decisione del Nuovo Psi di ricollocarsi nello schieramento di centrosinistra e analoga decisione in via di maturazione nel Partito Radicale sono ulteriori segnali della crisi di credibilità del centro destra.

Fin dai prossimi giorni, del resto, si vedrà se la destra è in grado di guidare il Paese. La discussione sul Dpef, infatti, sarà un banco di prova decisivo per capire se questa maggioranza di governo ha ancora qualche capacità di cogliere le domande degli italiani o se â?? come purtroppo è prevedibile â?? reciterà lâ??ennesima commedia degli errori. E, in ogni caso, appare francamente sconcertante che il governo ritenga di vincolare anche le risorse finanziarie del 2007 e 2008, quando nulla lascia pensare che questa maggioranza sarà ancora alla guida del Paese. In una democrazia normale e matura chi governa dovrebbe sentire la responsabilità di verificare in Parlamento, anche con un voto a maggioranza qualificata, il consenso a manovre che impegnano responsabilità di chi oggi è opposizione e domani potrà essere governo.


* * * *


Il profondo mutamento di giudizio dellâ??opinione pubblica nei riguardi del centrodestra apre la strada ad una nuova attenzione, a nuove aspettative, nei riguardi del centrosinistra e pone noi tutti dinanzi alla responsabilità di corrispondere a queste attese con un credibile messaggio di fiducia e speranza per il Paese.

Un messaggio fondato su due pilastri, quasi due parole d'ordine a cui dovremo ispirare ogni nostra iniziativa: rimettere in moto la crescita; restituire certezze di vita quotidiana.

Rimettere in moto la crescita, innanzi tutto, con un programma di rilancio della competitività del sistema Italia e politiche che aggrediscano i veri nodi della fragilità italiana: la specializzazione tecnologica delle produzioni, l'internazionalizzazione del sistema produttivo, il potenziamento delle infrastrutture materiali e digitali, la liberalizzazione di settori â?? dallâ??energia alle professioni â??  gravati da chiusure protezionistiche, la mobilitazione di tutte le risorse disponibili per accrescere il livello degli investimenti in ricerca, formazione, conoscenza.

E più certezze di vita: politiche redistributive che tutelino il potere di acquisto dei redditi, riducendo il cuneo fiscale tra retribuzione lorda e salario netto, recuperando il fiscal drag, intervenendo a contenere le tariffe pubbliche e  sostenendo, con fondo apposito, il costo della casa; un sistema di ammortizzatori sociali e di politiche di accompagnamento della mobilità del lavoro che contrastino la tendenza alla precarietà; un pacchetto di riforme del welfare che mettano al centro il sostegno al reddito familiare e le politiche per lâ??infanzia, i giovani e gli anziani.

Sono obiettivi  che vanno perseguiti fin dalla prossima legge Finanziaria e intorno a cui realizzare una grande â??Patto per la crescitaâ? su cui coinvolgere le organizzazioni economiche, sindacali e sociali, riaprendo la strada così a quella concertazione sociale essenziale per realizzare obiettivi condivisi.

Più certezza di vita significa anche più sicurezza individuale, con un più marcato presidio del territorio da parte delle forze dell'ordine, per garantire l'incolumità dei cittadini e il rigoroso rispetto della legalità.

Si, perchè la sicurezza dei cittadini non è una tema â??di destraâ?, ma lâ??obiettivo a cui deve tendere chiunque aspiri a governare una società.
Anzi, proprio chi ha a cuore il carattere democratico, libero, aperto di una società deve essere altrettanto attento ad assicurare a ogni cittadino tutela e sicurezza.
Perchè una società che si percepisca come insicura sarà più facilmente preda di suggestioni emotive e meno rispettosa dei diritti e delle garanzie, quando non addirittura di parole dâ??ordine barbare, dalla pena di morte alla castrazione chimica.

Ed è parte di una politica della legalità e della sicurezza anche una saggia politica dellâ??immigrazione.
Proprio nel momento in cui  lâ??offensiva terroristica punta ad allentare i vincoli di convivenza in società â?? come le europee â?? segnate da crescita di multietnicità, diventa più indispensabile essere capaci di â??liberare lâ??immigrazione dalla paura che porta con séâ? con politiche di integrazione attive e di riconoscimento di piena cittadinanza.

Sapendo che parte di questa politica è anche una efficace azione di contrasto della illegalità e della clandestinità, verso la quale non si può abbassare la guardia.
Strutture come i CPT appaiono anche a noi â?? come ai Presidenti delle Regioni italiane â?? oggi disumani e del tutto inadeguati. E, dunque, avvertiamo lâ??urgenza di ripensarne le strutture, la distribuzione  e il funzionamento.

Ma non pensiamo che lâ??unico rimedio sia la loro eliminazione, perchè se si smantellano strutture di contrasto alla clandestinità, crescerà nellâ??opinione pubblica paura e diffidenza non solo verso i clandestini, ma verso tutti gli immigrati.

E, dunque, si apra subito un confronto tra Governo, Parlamento e Conferenza Stato-Regioni su come affrontare il tema immigrazione e con quali strumenti gestirlo, individuando soluzioni capaci di assicurare civiltà e sicurezza.

Proprio la decisione di Francia e Olanda di sospendere il sistema di libera circolazione Schenghen â?? che ci auguriamo temporanea e presto revocata â?? ci dice quanto forte sia la tentazione di ripiegamenti e chiusure.

* * * *

Una forte domanda di certezze si può cogliere anche nell'esito, per noi assai deludente, del referendum sulla procreazione assistita. Un esito negativo che dobbiamo riconoscere come tale: non solo perché ha partecipato al voto soltanto il 25% degli elettori, ma anche perché in nessuna regione italiana si è realizzato il quorum e nel Mezzogiorno abbiamo avuto una partecipazione particolarmente bassa.

Molti fattori hanno pesato su questo esito: certamente la complessità della materia, non facilmente comunicabile, in poco tempo, ad una platea ampia di elettori.

Poi il fatto che per molte famiglie, molti uomini e molte donne, una materia complessa come quella bioetica, non è riscontrabile, almeno immediatamente e spontaneamente, nella gerarchia delle proprie priorità di vita.

Certamente ha pesato anche il logoramento dellâ??istituto referendario, vittima negli anni di troppi abusi e di troppi tradimenti. E tuttavia, tutte queste ragioni certamente spiegano, ma altrettanto certamente non spiegano tutto.

La verità è che i referendum sulla fecondazione assistita affrontavano un tema che di per sé evoca inquietudini, interrogativi, domande di senso, paure.

Noi abbiamo fatto una campagna elettorale ispirata alla massima razionalità, sforzandoci di rendere semplice e ragionevole il tema della fecondazione assistita, di liberarlo di tutte le paure e le angosce che quel tema poteva sollevare.

L'esito del referendum dice che probabilmente questo solo approccio è insufficiente, perché quella materia metteva e mette in discussione anche una dimensione valoriale, pone interrogativi e questioni di fondo che attengono alla vita, al rapporto tra vita ed etica, tra vita e scienza, alla capacità dellâ??uomo di dominare la tecnologia e le proprie scoperte scientifiche: temi che richiedono di tornare ad essere affrontati dalla politica, attraverso una riflessione di ampio respiro culturale.

La stessa difesa del principio di laicità - un'altra buona ragione che ha ispirato la nostra campagna referendaria - non ha parlato a tutta la società nello stesso modo. Mi ha colpito, in molte delle iniziative alle quali ho partecipato, quanto poco il tema della laicità coinvolgesse ad esempio i più giovani, molti dei quali sembravano non essere particolarmente colpiti dal valore di quella parola e dai rischi a cui era esposta.

Se è vero che ci siamo trovati dinanzi a nuove domande di senso, si spiega la capacità del mondo cattolico, della Conferenza episcopale, dell'associazionismo ecclesiale, di esprimere un nuovo protagonismo, culturale prima ancora che politico o elettorale: un altro dato che dobbiamo considerare e col quale dobbiamo fare i conti, se vogliamo parlare alla società italiana.

Tutte queste considerazioni non cambiano il nostro giudizio sull'importanza di avere condotto questa battaglia, su una materia che, per quanto fosse complessa e difficile, richiedeva da parte nostra un impegno chiaro ed esplicito. O sull'importanza civile di aver suscitato dibattito e conoscenza su un tema così cruciale; di aver raccolto la domanda di unâ??opinione pubblica avvertita, laica e cattolica, giustamente critica nei riguardi della legge 40; di aver condotto una battaglia a favore della ricerca scientifica, in un paese tradizionalmente poco incline a valorizzarla.

E desidero ringraziare quanti â?? in primo luogo scienziati â?? hanno voluto accompagnarci in questo cimento. Così come un ringraziamento va a quanti, da credenti, hanno voluto condividere questo impegni civile. E, infine, un grazie particolare va alle donne del nostro partito che con generosità hanno condotto una battaglia che non sempre ha trovato riscontro adeguato nei nostri gruppi dirigenti.

Se una riflessione autocritica va condotta riguarda lâ??insufficiente tensione a ricercare, per tempo e con vera determinazione,  quelle convergenze e quelle sintesi che avrebbero forse consentito una legge diversa.

Non può non essere materia di riflessione il fatto che in un arco temporale di sei anni â?? tanto è durato il complesso e travagliato iter legislativo di questa legge â?? non si sia potuta acquisire una soluzione condivisa. Nè si sia stati capaci di individuare un punto di ragionevole unità almeno nel centrosinistra.

Così come troppo sbrigativamente è stata liquidata la proposta Amato che, anche se in una fase ormai terminale dellâ??iter parlamentare, avrebbe forse potuto aprire qualche spiraglio di modifica, parziale almeno, della legge.

Dico questo non tanto per riflessione retrospettiva, ma perchè la possibilità di proseguire la nostra battaglia contro una brutta legge non può essere disgiunta dalla ricerca di quelle sintesi che consentano di realizzare in Parlamento â?? in questa o nella prossima legislatura â?? la maggioranza necessaria.

In ogni caso lâ??esito negativo ci pone lâ??esigenza di tornare con forza e con un respiro molto più ampio sui temi evocati dal referendum. In particolare, ci impone di riconsiderare il rilievo e lâ??attenzione che si deve alle questioni eticamente sensibili â??  come quelle che riguardano la vita e la morte, la famiglia e la sessualità â?? nell'elaborazione programmatica del centrosinistra.

Non potremo più limitarci, come è avvenuto in passato, ad attenzioni sporadiche ed episodiche. Men che meno, ci si può illudere, tanto più dopo il referendum, di ricacciare temi come questi nel limbo della libertà di coscienza. Sarebbe un'illusione, tanto più insostenibile in presenza di un centrodestra che invece intende fare del tema dei "valori" un vessillo da battaglia.

Sarebbe come riconoscere che, su questo piano, solo il centrodestra ha una visione strategica. E che al centrosinistra non resta che dividersi, grosso modo lungo l'antica frattura tra laici e cattolici. Uno scenario che, sull'esempio americano, consegnerebbe alla destra una durevole egemonia culturale, perfino al di là della possibile alternanza politica.

Uno scenario che può essere scongiurato, dal centrosinistra, solo riannodando il filo del dialogo e della contaminazione culturale tra laici e cattolici. Per parte nostra, non da oggi, siamo disponibili e interessati a costruire soluzioni condivise, andando oltre il semplice rispetto della diversità, che è fuori discussione. Quel che serve è fare delle nostre diversità una ricchezza da condividere e non un limite da non oltrepassare.

Anche perchè temi eticamente sensibili interrogano problematicamente non solo le coscienze religiose. Le domande che pone Papa Benedetto XVI, le pone anche un filosofo laico come Habermas.

E al tempo stesso la ricerca culturale e politica non  può esimersi dal misurarsi con la costruzione di soluzioni concrete capaci di tenere insieme rispetto delle convinzioni etiche o religiose, laicità dello Stato e tutela della libertà di scelta del singolo.

Eâ?? il caso delle coppie di fatto â?? eterosessuali e omosessuali â?? la cui tutela può essere ritrovata in una soluzione legislativa, i Pacs, che  senza contraddire lâ??art. 29 della Costituzione, possa tuttavia consentire il riconoscimento e la tutela dei rapporti patrimoniali e interpersonali tra conviventi. E anche da questa sede ribadiamo il nostro impegno â?? giù assunto al Congresso â?? a sostenere lâ??iter legislativo dei Pacs.

* * * *

Eâ?? pronto il centrosinistra a misurarsi con queste sfide?

Eâ?? legittimo e doveroso porsi questo interrogativo riflettendo sulle settimane difficili che abbiamo attraversato, vissute con tanto più travaglio dai nostri elettori perchè immediatamente successive al grande successo elettorale delle Regionali.

Credo di poter dire che il pericolo di una implosione è stato scongiurato. Così come scongiurato è stato il rischio di scissioni che avrebbero compromesso lâ??intelaiatura unitaria tessuta dal 2001 ad oggi. E tutti hanno riconosciuto il contributo determinante che noi abbiamo dato a far sì che dalle difficoltà si uscisse nel segno dellâ??unità.

Tuttavia è bene vedere â?? e non sottovalutare â??  i mutamenti intervenuti nella configurazione del centrosinistra, soprattutto per individuare i modi migliori per accrescere coesione e credibilità.

Il mutamento più rilevante è la decisione della Margherita di non proseguire lâ??esperienza della Lista Uniti nellâ??Ulivo e di presentarsi con il proprio simbolo nella quota proporzionale per la Camera dei Deputati.

Non si tratta naturalmente di una decisione organizzativa, ma di una scelta politica, motivata con la maggiore possibilità di intercettare consensi elettorali messi in libertà dalla crisi della destra.

Eâ?? una tesi che rispettiamo, anche se si potrebbe  obiettare â?? con fondamento â?? che la possibilità di attrarre un elettorato moderato in libertà forse potrebbe essere maggiore da parte di una lista unitaria, certo meno segnata da storiche appartenenze e antiche identità.
Tuttavia non è nostra intenzione riaprire una discussione che appare chiusa.

Ma non può sfuggire â?? neanche ai dirigenti della Margherita â?? che il venir meno della Lista unitaria, pone due questioni a cui tutti abbiamo il dovere di dare risposte convincenti.

La prima. Come evitare una competizione elettorale che logori il tessuto unitario fin qui costruito?

La decisione della Margherita comporterà scelte analoghe da parte degli altri partiti della coalizione.

Lo Sdi ha annunciato lâ??intenzione di dar vita ad una lista insieme a Nuovo Psi e Radicali.

Noi DS,  naturalmente, ci presenteremo alle elezioni con il nostro simbolo, aprendo le nostre liste a quanti come noi non rinunciano ad un disegno unitario.

E con il proprio simbolo si presenteranno probabilmente le altre forze politiche dellâ??Unione, per una parte delle quali lo sbarramento del 4% costituisce un serio problema.

Con la Lista Uniti nellâ??Ulivo avevamo puntato a superare questa frammentazione e lâ??ovvia competizione che ne discenderà.

Crediamo sia responsabilità di ciascuno mantenere un equilibrio ragionevole tra lâ??affermazione della propria identità e lâ??impresa comune in cui siamo impegnati. Il che comporta una tensione unitaria che eviti la continua ricerca di motivi di distinzioni, a favore di un confronto che privilegi la ricerca di convergenze e unità.

La seconda questione.
Con la Lista Uniti nellâ??Ulivo puntavamo a realizzare un obiettivo politico di portata strategica: lâ??unità delle forze riformiste.

Sappiamo bene che lungo più di cento anni il riformismo italiano si è manifestato in modo plurale: il riformismo socialista, di cui noi siamo tanta parte; il riformismo del cattolicesimo sociale; il riformismo di ispirazione laica e repubblicana. E in anni più recenti il riformismo ambientalista.

Sono le culture democratiche e riformiste che â?? in ogni passaggio cruciale della storia italiana â?? si sono date il compito, di incarnare le speranze di cambiamento, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, una spinta verso la libertà e lâ??emancipazione, una crescita delle opportunità civili per tutti.

Fu così alla fine dellâ??800 e nel passaggio al â??900 quando i riformismi â??rossoâ? e â??biancoâ? furono protagonisti dellâ??opera di civilizzazione e di emancipazione delle masse nella prima tumultuosa industrializzazione dellâ??Italia.
Fu così nella lotta per liberare lâ??Italia dal fascismo e nel comune impegno per la Costituzione e la Repubblica.
E, ancora, fu così negli anni della ricostruzione postbellica sino allâ??ingresso dellâ??Italia nel gruppo dei paesi più industrializzati.
E, fu così alla fine degli anni â??70 per battere il terrorismo e scongiurare il pericolo della decomposizione economica e sociale del Paese.
E poi negli anni â??90 per fare uscire lâ??Italia dalla più grave crisi istituzionale del dopoguerra e restituirle stabilità e certezza collocandola pienamente in Europa.

In ciascuno di questi passaggi le forze politiche e sociali espressioni di quelle grandi culture hanno svolto un ruolo decisivo collaborando tra loro, senza tuttavia mai andare oltre la collaborazione.

Lâ??Ulivo â?? non a caso nato nel â??95 â?? â??96 nel nuovo scenario politico istituzionale determinato dalla crisi dei partiti della prima Repubblica e dallâ??adozione di sistemi elettorali maggioritari e bipolari â?? fu il tentativo di andare oltre le istanze, le identità, le appartenenze, con lâ??ambizione di dare vita a una nuova sintesi.
Un progetto che, tuttavia, riuscì solo in parte. E anzi sullâ??insuccesso elettorale del 2001 influirono non poco i travagli e le difficoltà conosciute in quegli anni dallâ??Ulivo e dalla sua dialettica interna.

Quel progetto unitario fu riproposto da Romano Prodi nellâ??estate del 2003, come condizione per consolidare lâ??unità della coalizione di centrosinistra e per renderla più forte e credibile come alternativa di governo.

Accogliemmo per questo la proposta di Prodi di dar vita ad una lista unitaria. DS, Margherita, SDI e Repubblicani Europei in quanto espressioni politiche, pur non esaustive di quelle grandi culture riformiste, decisero di unirsi nel passaggio elettorale, consolidando tale scelta con la costituzione della Federazione dellâ??Ulivo.

La forza di quella decisione era proprio nella convinzione che da un simile incontro le diverse culture riformiste non solo non sarebbero uscite ridimensionate o addirittura mortificate, ma rinvigorite per essere più adeguate ad interpretare la nuova fase politica e a progettare il futuro.

Quella scelta è stata apprezzata e condivisa dagli elettori prima nelle elezioni europee â?? dove la Lista unitaria ha raccolto il 31% di voti â??  e poi, con lo straordinario successo registrato dalla lista unitaria nelle ultime elezioni regionali, con oltre il 34% dei consensi.

Oggi, tuttavia, quellâ??esperienza non può essere riproposta. Ma per noi lâ??obiettivo strategico â?? unire i riformisti â??  mantiene tutta la sua validità.

E questa affermazione non è in contrasto con lâ??unità di tutto il centrosinistra  che abbiamo  perseguito con convinzione e realizzato con la costituzione dellâ??Unione, che si presenterà con un unico candidato comune in ogni collegio maggioritario di Camera e Senato.

A nessuno può sfuggire, infatti, che una Unione costituita da 10 formazioni politiche nazionali, a cui si aggiungeranno movimenti autonomisti e regionali, rischia di essere troppo fragile se non guidata da un soggetto politicamente forte per radicamento elettorale, cultura di governo, profilo riformista.

Se come mi auguro vinceremo le prossime elezioni e governeremo lâ??Italia, ci aspetta una sfida assai difficile per risanare i conti pubblici, rimettere in moto lâ??economia, realizzare quelle riforme e quei cambiamenti non più rinviabili, restituire competitività al sistema paese. Ma affrontare al meglio questa sfida rende indispensabile un forte asse riformista che dia allâ??azione di governo maggiore credibilità e tenuta.
 
Per questo noi pensiamo che lâ??obiettivo di dare al Paese una forte guida riformista continui a essere una storica necessità. Anche se il suo perseguimento va ripensato in termini politici e organizzativi, perchè il motore a cui era stato affidato fin qui â?? la Lista unitaria â?? non è utilizzabile.

Dâ??altra parte la stessa Margherita che ha chiesto di non presentare la lista unitaria, ha dichiarato più volte di non voler rinunciare al perseguimento dellâ??unità delle forze riformiste.

Si tratta quindi di pensare allâ??unità dei riformisti in orizzonte più largo e più lungo, ma non di rinunciare alla sua costruzione.

Lo si potrà fare già in questi mesi realizzando convergenze politiche e programmatiche tra i partiti della Federazione dellâ??Ulivo, sia  a livello nazionale, sia nella dimensione regionale e locale.

E ancor di più allâ??indomani delle elezioni â?? tanto più se avremo responsabilità di governo â?? si potrà fare perno su una azione comune tra i gruppi parlamentari dei partiti dellâ??Ulivo per dare alla maggioranza di governo coesione e solidità, prima di tutto in Parlamento.

A  questo progetto di incontro tra le diverse culture riformiste del Paese, potrà dare un contributo essenziale una crescente convergenza e azione comune tra le forze della sinistra che si riconoscono nel socialismo europeo e che già oggi operano insieme nel PSE e nel Gruppo socialista al Parlamento di Strasburgo.

Il fatto che alle elezioni politiche del 2006 queste forze si presentino distinte, non deve impedire la ricerca e la costruzione di un cammino che potrà realizzare via via crescenti livelli di intesa e di azione comune,  consentendo così alla sinistra democratica e riformista di partecipare in modo più coeso e solidale allâ??incontro con le altre culture riformiste.

Un progetto così ambizioso non può prescindere da una solida leadership. Noi siamo convinti che Romano Prodi sia la personalità che oggi meglio di ogni altra risponde a questo requisito. E non solo perché evoca una stagione  vincente per il centrosinistra e straordinariamente positiva per lâ??Italia.

Ma perchè in questi cinque anni di guida della Commissione Europea, Prodi ha confermato oltre alla sua forte tensione europeista straordinarie capacità di governo, e insieme a Mario Monti, ha dato lustro a questo paese.
Una esperienza tanto più necessaria in un frangente in cui lâ??Italia â?? abbandonando finalmente lâ??eurofreddezza della destra â?? dovrà  anchâ??essa concorrere a far ripartire il processo di unità europea. E non è ininfluente se a guidare lâ??Italia in un passaggio così cruciale sarà un uomo â?? come Romano Prodi â?? che lâ??Europa conosce e nellâ??Europa crede.

Proprio per rendere ancora più forte  questa guida ci è sembrato giusto accogliere la proposta di Prodi di andare a elezioni primarie, investendo così il leader della coalizione di un grado di legittimazione molto più ampio.

Si tratta di una straordinaria iniziativa democratica che risponde per altro alla crescente domanda di partecipazione che abbiamo riscontrato in tutte le ultime campagne elettorali tra gli elettori del centrosinistra.

Con questa decisione, peraltro, applichiamo alla vita della nostra coalizione un principio coesivo, applicato in Italia nelle leggi elettorali comunali, provinciali e regionali con  lâ??elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia e della regione. 

Per questo avremmo auspicato che tutte le forze politiche dellâ??Unione invitassero i loro elettori e i cittadini a stringersi intorno a Romano Prodi. Non sarà così, avendo alcuni leaders dellâ??Unione scelto di presentarsi alle primarie,  forse privilegiando più lâ??obiettivo di dare visibilità alla propria parte politica che non la coesione dellâ??alleanza intorno a Prodi.

Non sarà, invece, questa la scelta dei DS, che hanno creduto e credono con convinzione in Romano Prodi e, per questo, lo indicheranno come il candidato da sostenere con il più ampio consenso.

Mi rivolgo quindi a tutti i nostri elettori  e a tutte le compagne ed i compagni perché si realizzi una grande mobilitazione che solleciti una grande platea di cittadini a recarsi lâ??8 e il 9 ottobre nei tanti seggi in cui si svolgeranno le primarie, per sostenere Romano Prodi e così rafforzare la coesione dellâ??Unione.

Le primarie consentiranno tra lâ??altro ai candidati â?? e in primo luogo a Prodi â?? di indicare le linee di fondo alle quali ispirare le scelte programmatiche che poi tutte le forze dellâ??Unione definiranno insieme in maniera compiuta nella Conferenza programmatica di dicembre.

Sarà lâ??occasione per utilizzare la campagna di ascolto e lâ??importante elaborazione sviluppatasi nella Fabbrica del programma, oltre alla ricca mole di proposte elaborate in questi anni dalle forze politiche.
Un percorso programmatico che, investendo la società italiana, ci consenta di dire agli italiani come intendiamo governare questo nostro Paese.

Forte leadership con forte investitura popolare, una solida e partecipata elaborazione programmatica, una coalizione unita  in un patto di legislatura per garantire stabilità di governo, sono i tre requisiti con i quali lâ??Unione si presenterà al paese  per vincere le elezioni e governare.

E a noi DS spetta la particolare responsabilità che ci deriva dallâ??essere il primo partito italiano e il primo partito del centrosinistra
A tutto questo i DS sono pronti.

In questi anni abbiamo ininterrottamente lavorato a rafforzare la nostra identità riformista intrecciandola con una profonda ispirazione unitaria.
Anzi, se i DS sono cresciuti in voti, eletti, consenso e credito è perchè sono apparsi agli elettori la forza più coerentemente e tenacemente unitaria.

Non smetteremo di lavorare per unire: unire il centrosinistra; unire i riformisti.
E dobbiamo dare a tutti la consapevolezza che la possibilità di tenere aperta la prospettiva strategica dellâ??unità dipenderà non solo dalla vittoria dellâ??Unione, ma anche in misura determinante dal successo elettorale dei DS.

Noi vogliamo modernizzare lâ??Italia, innovarla nellâ??economia e nella società, adeguare il suo sistema istituzionale.
Vogliamo cambiare questo Paese, liberare le tante sue energie, valorizzarne talenti e risorse.

E proprio per rendere chiari valori, proposte e strumenti della nostra proposta riformista e per partecipare con un contributo collettivo forte alla Conferenza programmatica dellâ??Unione,  allâ??inizio di novembre dedicheremo al â??nostro riformismoâ? una grande Convenzione Nazionale dei DS. Una Assise, istruita dalla Direzione, e realizzata con il più ampio coinvolgimento dei nostri dirigenti, di parlamentari e amministratori regionali e locali, dei nostri quadri di base e aperta al confronto con le molte articolazioni della società italiana.

Se la competizione tra le forze politiche di cui tanto si è parlato in questi giorni si svolgerà sul terreno della proposta ideale, culturale e politica, ne potrà beneficiare la coalizione e lâ??Italia. E noi siamo certi di avere tutte le carte in regola per parteciparvi.

Siamo stati e siamo una forza aggregante, che vuole interloquire con quanti hanno creduto al progetto dellâ??Ulivo e che guarda con grande attenzione a tutto quello, ed è tanto, che cresce fuori dai partiti.

Penso ai tanti cittadini che hanno visto nellâ??Ulivo un fattore di innovazione e che rischiano di vivere con delusione lâ??assenza della Lista unitaria.
Penso alle diverse aggregazioni civiche sorte in occasione delle elezioni amministrative.
Penso ai movimenti, di natura laica e cattolica, della società civile, che continuano ad essere protagonisti di grandi battaglie per la crescita culturale e sociale di questo Paese. Penso a forze politiche di area laica, ambientalista e socialista che guardano a noi nel comune obiettivo di unire i riformisti.

A tutti costoro noi ci rivolgiamo offrendo il nostro Partito e le sue liste come punto di riferimento unitario e per perseguire insieme il comune impegno dellâ??unità dei riformisti.

E lo potremo fare tanto meglio se valorizzeremo e svilupperemo la nostra identità di grande  forza della sinistra democratica e riformista, rendendo evidente il carattere plurale del nostro partito che vede la comune appartenenza ai DS di cristiano sociali, repubblicani, socialisti, ambientalisti insieme a donne e uomini provenienti dal Pds.

Così come avvertiamo la necessità di perseguire con determinazione quel rinnovamento, anche generazionale, della classe dirigente che accolga il bisogno di innovazione e apertura che si avverte non solo nella politica e riguarda tutte le sfere della vita economica e sociale dellâ??Italia.


* * * *

Questi dunque sono gli impegni che stanno di fronte a noi in questa lunga sfida che oggi, di qui, parte per condurci alle elezioni del 2006 e al governo del Paese.

Molte condizioni ci sono favorevoli.

E tuttavia guai a dare per scontato lâ??esito di uno scontro elettorale così impegnativo.
La destra è ben cosciente della crisi in cui versa e dei rischi di sconfitta a cui è esposta. E farà di tutto per riprendersi e strappare il successo.

Noi dobbiamo parlare al Paese, partendo dalle sue ansie, dalle sue domande, dalle sue speranze.
E lo dovremo fare non solo prospettando ciò che vorremmo fare dal 2006, ma dimostrando â?? adesso, qui e ora â??  la nostra affidabilità in quelle 16 regioni su 20,  in quelle 74 province su 108, in quei 5000 comuni su 8000, in cui già oggi abbiamo responsabilità di governo.

Una responsabilità che ci impone non solo innovazione di contenuti e coerenza di programma.
Ci impone anche sobrietà di comportamenti e rigore morale, contrastando in modo fermo e esplicito manifestazioni di ministerialismo e di ostentazione di potere di cui talora si ha qualche segnale.

Noi crediamo nella politica come servizio e come capacità di offrire ai cittadini soluzioni ai loro problemi.
I nostri rappresentanti nelle istituzioni sono lì per questo. E a questa tensione civica e etica, dâ??altra parte, si ispira lâ??azione e la condotta dei nostri eletti. E, dunque, anche per tutelare la loro dedizione, il loro impegno e la loro credibilità, dobbiamo essere severi nel contrastare ogni comportamento che allontani i cittadini dalla politica e dalle istituzioni.

In ogni caso il nostro punto di riferimento  devono essere gli italiani.
Sapendo che viviamo tempi di inquietudini.
Londra è lì ad ammonire su

Letto 434 volte
Notizie Correlate
Audio/Video Correlati
Dalla rete di Articolo 21