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Articolo 21 - Editoriali
Le punizioni collettive sono la negazione della democrazia
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di Erfan Rashid

Può una grande democrazia, dotata della forza militare più potente nel mondo, fondare il proprio rapporto con il mondo sulla base di una reazione emotiva? E', soprattutto, lecito per quella super potenza usare la logica della punizione collettiva contro la popolazione di una intera città solo perché alcuni criminali, forse estranei alla stessa citta', si sono macchiati del crimine più efferato in questa guerra? Una guerra - peraltro - che sarebbe stata dichiarata conclusa dieci mesi fa e che invece continua a devastare l'Iraq e a mietere vittime su tutti i fronti.
Ho sempre considerato tutti gli attentati - che siano compiuti da iracheni o da 'infiltrati' stranieri - come atti criminali catalogabili sotto la voce 'terrorismo'. E li ho sempre considerati opera di pochi individui che gettavano nel terrore, prima dei soldati, gli stessi abitanti delle città in cui avvenivano gli attentati. Ma adesso, dinanzi alle vittime civili dell' operazione "Stana e Punisci", dopo che l' esercito occupante non ha avuto il minimo rispetto anche per una moschea, bombardandola sapendo di colpire anche centinaia di civili raccolti in preghiera, dopo l' assedio e i bombardamenti indiscriminati sulla città di Falluja, non sarà più possibile usare gli stessi criteri del passato. Adesso, agli attacchi terroristici temo che dovremo aggiungere le vendette di molti che hanno visto morire i propri cari nelle operazioni indiscriminate degli americani, in una punizione collettiva che non ha guardato in faccia nessuno. E tutto questo perche' non sono riusciti a trovare i veri autori del delitto.
Sorprende e suscita enorme preoccupazione il protrarsi dell'approccio dilettantesco e approssimativo che gli Stati Uniti continuano ad avere in Iraq. Malgrado la loro presenza sul territorio, ormai da un anno, gli Usa non hanno ancora imparato come agire. Malgrado i proclami e gli slogan con cui annunciano le loro buone intenzioni democratiche per l'Iraq, prevale nella loro azione la logica dell'occupante e del più forte. Logiche che riportano alla mente degli iracheni, e anche alla mente degli arabi in generale, spaventose similitudini con l'attuale situazione dei territori palestinesi sotto assedio e occupazione israeliana. Questa situazione rimanda ad altre simili, come le punizioni collettive messe in opera dal deposto dittatore contro le città a maggioranza sciita e curda, ma anche contro città di maggioranza sunnita. E' il caso di Balad, a nord di Baghdad. Pochi ricordano che quando - a meta' anni 80 il corteo di Saddam Hussein in marcia verso Tikrit - fu oggetto di un attentato, la città venne quasi rasa al suolo.
L'equazione "Falluja come Jenin", circolata negli ultimi due giorni, non nasce - ovviamente - da somiglianze geografiche tra le due città, bensì dal tipo di offensiva che hanno subito e dalle caratteristiche degli eserciti che le hanno assediate e attaccate. Un attacco e un assedio che rischia di rigettare l'Iraq nel caos più totale, disperdendo tutto quello che è stato faticosamente fatto sia dagli iracheni, sia dalla coalizione. Siamo dinanzi ad una situazione che rischia di diventare più pericolosa dalla stessa guerra, culminata esattamente il 9 aprile di un anno fa con la caduta della dittatura più sanguinosa e più odiosa nel XX° secolo.
I fatti delle ultime ore, gli scontri, i rapimenti di cittadini stranieri e la probabile spaccatura in seno al consiglio del governo iracheno, con l'imposizione di Paul Bremer al ministro degli interni, figura di primissimo piano nell'opposizione a Saddam Hussein, a rassegnare le dimissioni, tutto cio' oscura di nuovo l'orizzonte di Baghdad. E conduce gli iracheni, nel secondo anno senza il loro sanguinoso dittatore, dritti non solo verso un futuro ricco di incognite minacciose, ma - quel che e' peggio - verso un focolaio di guerra civile.

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