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Articolo 21 - Editoriali
Con gli iracheni contro il terrorismo
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di Ahmad Rafat

Mercoledì 20 alle ore 12, le 10 di mattina in Italia, gli iracheni rimarranno in silenzio per un minuto. Un minuto di silenzio che deve far breccia, come un ariete, in quel muro di silenzio più assordante che si è alzato intorno al loro sacrificio quotidiano. Quel silenzio che uccide che non abbiamo mai voluto osservare per le vittime mussulmane di un terrorismo che si definisce islamico. In Europa e in Italia, siamo rimasti in silenzio dopo lâ??11 settembre per le vittime delle due torri di New York, e poi per le vittime dellâ??11 marzo di Madrid, e di recente anche per le vittime degli attentati di Londra.
Non abbiamo però avuto lo stesso rispetto per le vittime di Bali, di Djerba, di Istanbul, per non parlare di quelle di Baghdad, Mosul, Najaf e Kerbela. Le irachene e gli iracheni, vittime del terrorismo, sono dei morti fantasma. Anzi peggio. In più occasioni parte della nostra società civile si è schierato a fianco dei loro aguzzini, definendoli resistenza. In questi ultimi due anni,  soprattutto in occasione dei miei viaggi in Iraq, colleghi, amici e conoscenti iracheni mi hanno implorato e chiesto di convincere i miei interlocutori italiani ed europei, a non chiamare gli aguzzini al servizio di Osama bin Laden, dei resistenti. â??Siamo noi che resistiamoâ?, mi disse una volta il segretario del Partito Comunista dellâ??Iraq.
Mercoledì 20 luglio, la vera resistenza, quella che raccoglie le vittime e non i carnefici, ha deciso di far sentire la propria voce, proclamando  un minuto di silenzio. Un silenzio che sfida le nostre coscienze. Un minuto che deve bastare a farci riflettere su quale dialogo vogliamo stabilire con lâ??Oriente, e soprattutto con chi intendiamo dialogare, con chi rischia di perdere la testa, o con chi ha in mano la scimitarra.
Mercoledì 20 luglio gli iracheni, con il loro minuto di silenzio, ci offrono unâ??occasione. Lâ??occasione per scegliere da quale parte schierarci, con le vittime o con gli aguzzini.
Eâ?? doloroso, ma bisogna riconoscere che finora non ci siamo mai schierati dalla parte delle vittime. Lâ??8 luglio alle manifestazioni, se cosi possono essere definite, per commemorare le vittime degli attentati di Londra, câ??erano poche decine di persone. Un anno prima, il 18 marzo solo un pugno di persone hanno espresso il proprio sdegno per i 192 morti della strage di Madrid. A manifestare contro la guerra, contro gli americani e i loro alleati, eravamo invece migliaia.
Essere contro la guerra, non può e non deve significare sostenere il terrorismo. Ma sfortunatamente cosi sembra. Chi scende in piazza contro la politica della Casa Bianca e rimane a casa dietro le persiane tappate quando uccide il terrorismo, esprime un giudizio politico che i terroristi interpretano come appoggio alla loro politica assassina. A chi la pensa diversamente chiedo per un solo minuto, in silenzio, di guardare le manifestazioni deserte di condanna del  terrorismo e quelle oceaniche di rifiuto della guerra, con gli occhi di un iracheno.
Per quando mi riguarda, da uomo laico nato in un paese islamico e cresciuto in terra di Occidente, non ho dubbi su quello che farò mercoledì 20 luglio alle ore 12 di Baghdad. Rimarrò in silenzio, pensando a miei colleghi giornalisti iracheni. Non solo a quelli che sono morti rifiutando il ricatto del terrorismo, ma anche a quelli che ogni mattina uscendo da casa salutano i loro cari come se fosse lâ??ultima volta. Questo silenzio lo devo a loro e a tutte le vittime mussulmane di un terrorismo che si definisce islamico, e che forse ha più amici in Occidente che non in Oriente.

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