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Articolo 21 - Editoriali
Un processo europeo alla legge tv
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di Giovanni Valentini*

La televisione italiana finisce sotto processo davanti alla Corte di Giustizia europea. Dopo vent´anni di Far West delle antenne, di ripetute violazioni e innumerevoli sentenze costituzionali, di leggi "ad hoc" e decreti-legge "ad personam", a vantaggio di Silvio Berlusconi e delle sue aziende, l´intero sistema televisivo del nostro Paese viene rinviato a giudizio di fronte al Tribunale supremo di Lussemburgo. Con una delibera destinata verosimilmente a rimettere in discussione l´assetto del duopolio tv, l´ha deciso ora il Consiglio di Stato in merito al ricorso presentato da "Europa 7", l´emittente-fantasma che ottenne nel â??99 una concessione nazionale ma finora non ha ricevuto materialmente le frequenze per cominciare a trasmettere.
A leggere le 60 pagine del provvedimento, si tratta di una requisitoria a tutto campo contro l´occupazione selvaggia dell´etere, iniziata a metà degli anni Ottanta con la copertura e il favore dei governi socialisti presieduti da Bettino Craxi. Ma la decisione del Consiglio di Stato contiene anche un atto d´accusa nei confronti della legislazione italiana, in nome del diritto comunitario, del pluralismo dell´informazione e della libera concorrenza. Dalla legge Mammì dell´agosto â??90 alla legge Maccanico del â??97, fino alla legge Gasparri del 2004, imposta dal centrodestra per salvare Retequattro dal trasferimento sul satellite e ampliare la raccolta pubblicitaria di Mediaset, la controversa storia della tv italiana dopo la fine del monopolio pubblico viene qui ricostruita e analizzata con un rigore critico che equivale a una sentenza di condanna.

Per il momento, il Consiglio di Stato rimette il caso alla Corte di Giustizia europea e nell´attesa sospende di conseguenza il giudizio di merito. Ma pone al Tribunale di Lussemburgo dieci "quesiti pregiudiziali", cioè dieci questioni interpretative di legittimità, che contengono ognuna un´ipotesi accusatoria precisa. Si va dalla violazione del pluralismo e della concorrenza nel settore televisivo al trattamento discriminatorio nei confronti di "Europa 7"; dall´infrazione delle norme antitrust a quella della disciplina comunitaria. Per arrivare, infine, a puntare il dito contro la transizione al sistema digitale terrestre vagheggiata dalla riforma Gasparri (che "rischia di ulteriormente aggravare la scarsità delle frequenze disponibili", com´è scritto nel provvedimento) e contro il famigerato Sic, il Sistema integrato delle comunicazioni, che prevede un limite del 20 per cento delle risorse pubblicitarie ("collegato a un nuovo paniere molto ampio che include - sottolinea però lo stesso testo - anche attività che non hanno impatto sul pluralismo delle fonti d´informazione").
Il ricorso di "Europa7", la rete che appartiene all´imprenditore Francesco Di Stefano, rappresentato dal professor Alessandro Pace e dagli avvocati Giuseppe Oneglia e Ottavio Grandinetti, risale al 1999. A quell´epoca, l´emittente partecipò alla gara per il rilascio delle concessioni televisive e si classificò al settimo posto della graduatoria. Il Piano nazionale ne prevedeva in totale 11, tre delle quali riservate al servizio pubblico, con un "tetto" antitrust del 20%, pari a due reti per ciascun soggetto privato.
Ma da allora a oggi il ministero delle Telecomunicazioni non ha mai provveduto ad assegnare a "Europa7" le relative frequenze, perché queste risultavano occupate abusivamente da due "reti eccedenti", Retequattro e Tele+ Nero, che superavano i limiti delle concentrazioni. E tuttavia, sotto una forte pressione politica a cui neppure la vecchia maggioranza di centrosinistra è stata capace di resistere, vennero autorizzate entrambe "in via transitoria" a proseguire le trasmissioni in attesa di una riforma complessiva del settore.
Al contrario, come si legge a pagina 44 della decisione del Consiglio di Stato, "emittenti come Europa7, pur avendo ottenuto la concessione, non essendo nella condizione di esercire una rete all´atto di presentazione della domanda di connessione, ma essendo nuovi entranti che non possiedono una rete d´impianti in esercizio, attendevano l´assegnazione delle frequenze". In una guerra infinita di carta bollata, la paradossale situazione s´è trascinata così fino al dicembre 2003, termine ultimo e perentorio fissato dalla Corte costituzionale per la scadenza del regime transitorio, quando il governo Berlusconi ha dovuto emanare in tutta fretta il cosiddetto "decreto salva-reti" per evitare appunto che Retequattro fosse trasferita sul satellite. Poi, è arrivata l´approvazione definitiva della legge Gasparri, già bocciata nel frattempo dal Capo dello Stato per una palese incostituzionalità, a mettere al sicuro la terza rete del presidente del Consiglio dietro il paravento del digitale terrestre che dovrebbe moltiplicare il numero dei canali disponibili.
Senza entrare per ora nel merito del giudizio, e rinviando quindi anche la decisione sulla richiesta di risarcimento danni presentata da "Europa7" per una cifra che va da un minimo di 882 milioni di euro a un massimo di tre miliardi, nella sua decisione il Consiglio di Stato richiama però tutta la legislazione comunitaria in materia. E per quanto riguarda in particolare la legge Gasparri, cita la denuncia della Commissione europea sulla democrazia e sulla legalità, oltre al rapporto stilato recentemente dalla "Commissione di Venezia" su incarico del Consiglio d´Europa che, fra l´altro, considera al momento l´adozione del Sic un criterio "non adeguato a creare condizioni di effettiva concorrenzialità".
Ma ancora più significativo, e carico evidentemente di implicazioni giuridiche per gli sviluppi futuri, è il passo in cui il provvedimento ribadisce esplicitamente la prevalenza della normativa europea sulla legislazione italiana e sulla giurisprudenza della stessa Consulta. "Una volta pronunciatasi la Corte costituzionale di uno Stato membro - si legge a pagina 54 - non deve ritenersi improprio che lo scrutinio su di una legge possa essere effettuato anche dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee, per verificare eventuali contrasti con il diritto comunitario". E poco più avanti: "Da ciò deriva che l´accertamento di un eventuale contrasto originario della legge Maccanico con il diritto comunitario, non è precluso dal giudicato costituzionale".
La parola alla Corte, insomma. Ma l´ultima spetta ora a quella europea: a Lussemburgo, piuttosto che a Roma.

*da Repubblica - 20 luglio 2005

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