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Articolo 21 - Editoriali
Quale nesso tra la minaccia attentati e la guerra in Iraq?
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di Marco Calamai

Prima domanda: esiste un nesso tra la minaccia di nuovi attentati  terroristici di matrice islamica e la presenza militare di un paese (lâ??Italia ad esempio) in Iraq? Seconda domanda: se questo nesso esiste non è altamente irresponsabile (a dir poco) perseverare nella decisione (come sembra voler fare, almeno per il momento, il governo italiano) di restare in Iraq?
Risposta alla prima domanda. Per i terroristi islamici questo nesso esiste. Lo hanno detto in tutte le salse, minacciando esplicitamente più volte i paesi occupanti (tra cui, appunto, lâ??Italia). Dopo lâ??attentato di Londra sarebbe una follia ignorare queste minacce (e infatti fa bene il Ministro degli Interni del governo italiano a prepararsi al peggio). Ma anche non volendo accreditare i recenti messaggi di morte (che stanno creando un clima di altissima tensione e generale insicurezza), sarebbe comunque sciagurato continuare a non vedere, e capire, quanto sta avvenendo in quel terribile buco nero (altro che democrazia!) che si chiama Iraq. Un buco nero che ha permesso ai vari Bin Laden, grandi e piccoli, di aprire un nuovo fronte nella â??lotta contro lâ??Occidenteâ? e contro quella parte dellâ??Islam (i regimi sunniti alleati degli Usa, dallâ??Arabia saudita allâ??Egitto, ma anche gli â??ereticiâ? sciiti) considerata filo occidentale. Un buco nero che ha permesso, soprattutto, di conquistare  nuovi addetti alle azioni terroristiche (in Iraq in primo luogo, dove la guerriglia sunnita cresce ogni giorno e uccide poliziotti iracheni , soldati americani e tanti civili, soprattutto sciiti) ma anche in Europa e in generale dove esistono importanti comunità musulmane. Quindi (risposta alla prima domanda) questo nesso, piaccia o non piaccia, esiste ed è irresponsabile negarlo.  Eâ?? dunque assurdo affermare, come fanno i neocons americani ed europei (più che mai attivi anche in Italia) , che la â??minaccia allâ??occidenteâ?, ovvero il terrorismo islamista, precede (si, lo sappiamo: lâ??11 settembre 2001 viene  prima della guerra in Iraq)  lâ??attentato alle twin towers  e, quindi, la guerra e lâ??occupazione militare dellâ??Iraq. E che quindi lâ??Iraq non è la ragione di tanti attentati. Affermare che lasciare lâ??Iraq non garantirebbe ad un paese che compiesse tale scelta dal rischio attentati, è come dire: ormai siamo in guerra, il terrorismo câ??è indipendentemente dallo sviluppo del conflitto iracheno, quindi restiamo in Iraq vadano come vadano le cose laggiù. E che Dio ce la mandi buona!. Eâ?? questa, nei fatti, la risposta che i governi che hanno ancora truppe in Iraq (compreso quello italiano, almeno fino ad oggi) stanno dando alla seconda domanda di cui sopra.
Chi scrive, come tanti altri (tra cui numerosi analisti e osservatori americani di variopinta tendenza), la pensa, e non da oggi, in modo opposto e resta fortemente convinto che, ora più che mai, lâ??unica scelta saggia, oltre che coraggiosa (non è certo facile sfidare, come ha fatto Zapatero, la superpotenza), sia quella di decidere il ritiro. Compiendo un atto di grande ma necessario coraggio politico. Ma su questo vorrei essere chiaro.
Una cosa è decidere unilateralmente il ritiro delle truppe sotto la minaccia terroristica, altra cosa, invece, è  prendere questa decisione lanciando, al tempo stesso, una forte iniziativa di pace a livello internazionale. Si tratterebbe, in pratica, di dare un forte contributo ad una azione multilaterale orientata alla definizione concordata di una Road Map per lâ??Iraq, di un processo che abbia come obiettivo finale un accordo tra sunniti, curdi e sciiti. Un accordo che isoli i gruppi più radicali del fondamentalismo islamico (iracheno e non) e crei le condizioni per una convivenza (comunque sia, anche se la conclusione del processo fosse la sostanziale divisione del paese) stabile e duratura, ponendo fine ad un bagno di sangue sempre più pauroso e che, in ogni caso, lâ??occupazione americana non è certo capace di fermare. Ora è evidente che una road map irachena dovrebbe partire da un accordo condiviso, e quindi garantito, non solo dalle singole componenti del mosaico iracheno (quindi anche dai sunniti  che hanno preso le armi contro lâ??occupazione straniera e non hanno partecipato alle elezioni) ma anche dai paesi confinanti ( tutti a maggioranza sunnita salvo lâ??Iran sciita) e, ovviamente, dallâ??Europa, dagli Stati Uniti, dalla Russia e dalla Cina (in quanto grandi paesi oltre che membri del Consiglio di Sicurezza). Eâ?? realistica questa ipotesi, che naturalmente dovrebbe essere gestita e guidata dalle Nazioni Unite e dovrebbe vedere un forte protagonismo dellâ??Unione europea, in una visione finalmente multilaterale delle relazioni internazionali, se gli americani riconfermano comunque la scelta di restare in Iraq? Forse non è ancora realistica ma certo non è impossibile. In America, a ben guardare, crescono le voci di chi ritiene urgente individuare una exit strategy dallâ??Iraq. Sono molti a questo punto coloro che, anche negli Stati Uniti e perfino allâ??interno dellâ??Amministrazione Bush, cominciano a pensare che lâ??alternativa al ritiro sia quello di trasformare i militari americani in ostaggi (come ha scritto John F. Burns sul New York Times il 26 luglio scorso) della guerra per bande che ormai domina la scena irachena e della sempre più probabile guerra civile (che alcuni osservatori considerano ormai iniziata) tra sunniti e sciiti. Una situazione sempre più difficile, alla lunga insostenibile, per gli americani ma anche e soprattutto per paesi più â??fragili ed espostiâ?, per tante ragioni geopolitiche, come lâ??Italia. Sono queste in sintesi le valutazioni che spingono, ora più che mai, ad affrontare seriamente, senza perdere altro tempo, il tema cruciale di una svolta nella politica estera italiana. Chi, come il sottoscritto, ha apprezzato le recenti dichiarazioni del nostro Ministro degli Esteri a proposito delle irresponsabili prese di posizione della Lega (sempre più xenofoba e contraria al dialogo con il mondo musulmano) non può a questo punto, di fronte alla terribile accelerazioni degli eventi, non auspicare una svolta netta nella nostra politica estera. Eâ?? possibile, ecco la domanda di fondo, un vero dialogo con il mondo musulmano che non ha ancora sposato le posizioni fondamentaliste, se non si opera concretamente, non domani ma oggi, per ristabilire una pace vera in Medio Oriente ed in particolare in Iraq? A nostro modesto parere non è possibile aprire questo dialogo se si decide di restare in Iraq in posizione subalterna alla strategia dellâ??attuale Amministrazione americana. Occorre al contrario contribuire a diffondere una percezione diversa dellâ??Occidente (o almeno dellâ??Europa) da parte delle masse arabe e musulmane e questo lo si può ottenere soltanto se si contribuisce con i fatti alla fine del conflitto iracheno e quindi, per le ragioni esposte, con il ritiro delle truppe occupanti. Eâ?? evidente che una scelta di questo genere non è certo facile ed indolore per un governo le cui truppe sono in Iraq da più di due anni e che in ogni caso questa scelta non avrebbe conseguenze immediate e automatiche su eventuali piani terroristici difficilmente controllabili visto che ormai Bin Laden e soci operano attraverso la metodologia del franchising  e quindi della relativa autonomia delle cellule eversive.  Ma questo è un momento di estremo pericolo e di estrema incertezza dal quale bisogna comunque cercare di uscire. Fare come gli struzzi, parlare di lotta al terrorismo e di dialogo tra Occidente e Islam senza affrontare di petto la questione irachena, rischia di trascinarci inevitabilmente in un vicolo senza uscita, in una posizione di gravissima debolezza politica e di vulnerabilità. Per questo è importante il ritiro ma, ripeto, un ritiro accompagnato da una forte e chiara iniziativa dellâ??Italia sul piano internazionale. Credo che una scelta come questa, se venisse fatta dal governo italiano, non importa a questo punto quale purché la si faccia in fretta, sarebbe altamente apprezzata e condivisa dalla stragrande maggioranza degli italiani. Farla al più presto e senza esitazioni, prima di un eventuale drammatico evento, è di estrema importanza. Per la sicurezza dei nostri cittadini, per il futuro dei nostri giovani, per lâ??unità di fondo del paese, per il ruolo dellâ??Italia in Europa e nel mondo. Per contribuire davvero al dialogo tra le civiltà.

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