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Articolo 21 - Editoriali
Alla ricerca della morale perduta
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di Eugenio Scalfari

La lettera di Carlo De Benedetti pubblicata ieri in questa stessa pagina e indirizzata direttamente a Repubblica, ai suoi lettori e a chi lavora alla sua fattura, contiene una notizia importante. Importante non soltanto per noi ma per tutto il mondo dell'informazione e addirittura per una certa concezione del capitalismo italiano e dell'etica che dovrebbe motivarne i comportamenti.

La notizia è il rifiuto di De Benedetti, dopo una prima accettazione della quale egli stesso ha raccontato il contesto, ad accettare la presenza di Silvio Berlusconi in una sua importante iniziativa economica. La compresenza di due ormai storici avversari, che avevano ed hanno visioni del tutto diverse sul bene comune, i modi e i comportamenti adeguati a realizzarlo e gestirlo, poteva suscitare fraintendimenti, strumentalizzazioni interessate ed anche legittimo disagio in quanti condividono la linea morale, culturale e politica del nostro gruppo editoriale e del nostro giornale.
Forse Carlo De Benedetti non aveva valutato a fondo l'ampiezza di tale disagio, forte della sua buona fede e del legame ideale che ha sempre intrattenuto con chi l'ha diretto e chi lo dirige. C'è nella sua lettera di ieri un passaggio in cui ricorda il nostro primo incontro di quasi quarant'anni fa. Lo ricordo benissimo anch'io. Eravamo giovani allora e coltivavamo speranze e illusioni. Le illusioni sono cadute alla dura prova dell'esperienza, ma le speranze e le convinzioni sussistono ancora e le vicende che abbiamo attraversato ne confermano la validità.

Caro Carlo, caro amico nostro, la lettera che ci hai inviato ti rende piena giustizia e rafforza in noi affetti e fiducia, sicché non ci sarebbe null'altro da aggiungere se non fosse, come ho già scritto all'inizio, che questa vicenda e la sua conclusione sono esemplari ben al di là dell'episodio specifico. Ed è su questo che mi sembra opportuno ragionare.

Si torna a parlare di questione morale. Ne parlano i giornali, ne parlano gli uomini politici, gli uomini d'affari, gli scrittori e naturalmente i moralisti.
Quest'intenso discutere di morale mi allarma. Sono infatti convinto che quando la morale diventa argomento di vivace discussione, essa stia scomparendo dai comportamenti degli individui e dei gruppi sociali. Sono altresì convinto che l'eccessivo e frequente parlarne crei notevole confusione di concetti e serva a stiracchiare ideali e principi per metterli al servizio di interessi e di egoismi particolari.

Tenterò dunque di fare un po' di chiarezza rispetto a me stesso e chi ha la bontà di leggere queste mie osservazioni. E comincerò citando un brano d'un mio libro ("Alla ricerca della morale perduta") pubblicato dall'editore Rizzoli nell'ottobre del 1995, che a dieci anni di distanza mi sembra più che mai attuale.
"C'è in tutto lo svolgimento del Novecento e in particolare negli ultimi vent'anni del secolo che ci ha portato sul bordo del terzo millennio, un rigoglioso fiorire di morali che si affermano a detrimento della morale. La morale è sprofondata nell'amore di sé, ma poiché ciascuno vive in relazione con gli altri, con alcuni dei quali fa gruppo per contrastare altri gruppi e imporsi su di loro, ecco che dal profondo egoismo dell'amore di sé è riemersa una morale diciamo così corporativa, una morale deontologica, identificata con le 'regole dell'arte'. Ciascuno dovrà fare meglio che può ciò che ha scelto di fare, gestire con efficienza la funzione cui è stato chiamato, vivere fino in fondo la vocazione che porta dentro di sé. La sua morale è questa né può essere un'altra. Così la morale dell'artista è identificata con l'opera sua alla cui riuscita tutto può, anzi deve, essere sacrificato e la stessa cosa vale per l'uomo d'affari la cui morale è la buona riuscita degli affari che ha per le mani, e così per il capo di un'impresa la cui morale non ha altra sede che l'impresa stessa e così per il capo e per il militante d'un partito, di un setta, di una corporazione.

Ma poiché una persona non realizza se stessa in un solo segmento del proprio vivere, salvo che un'ossessiva nevrosi non lo divori, ecco che le diverse morali si affiancano e convivono tranquillamente tra loro: si indossa la morale impietosa del businessman al mattino, cercando di rovinare il concorrente, e quella filantropica alla sera, nelle riunioni delle parrocchie e del circolo degli scout portando aiuto all'orfano e alla vedova. Le morali si affiancano senza sovrapporsi. Guai se si sovrapponessero; si aprirebbero contraddizioni devastanti e bisognerebbe scegliere tra la morale del mattino e quella della sera. Viceversa convivono: l'uomo e la donna contemporanei somigliano ad un'arancia composta di tanti spicchi, sono animati da varie passioni e da diversi interessi ciascuno dei quali sviluppa una morale. Tante passioni, tanti interessi, tante morali. Come definireste una società di morali conviventi che hanno scacciato il sentimento morale in quanto tale, in quanto impulso a superare il se stesso e occuparsi degli altri? Come la definireste se non una società amorale?".

* * *
Perdonerete questa lunga citazione, che ha tuttavia il pregio di chiarire il contesto sociale e il quadro morale, anzi amorale, entro il quale viviamo.
Nel 2005 questo quadro è diventato ancor più disperante di quanto non fosse dieci anni addietro e le sue linee di tendenza ancor più preoccupanti.
La conferma di quanto dico sta nei fatti recenti e recentissimi che si svolgono sotto i nostri occhi e di fronte ai quali non sai se stupirti, indignarti, resistere o ritirarti sopraffatto dal disgusto. Soprattutto bisogna capire. Individuare le cause. Immaginare i rimedi.
Raccogliere onesti consensi per invertire la tendenza e, pur riconoscendo l'autonomia delle morali, unificarle nel sentimento morale radicato nell'identità della persona e del comune sentire.

La questione morale fu a suo tempo il punto di forza di Enrico Berlinguer durante la tormentata stagione di distacco del Pci dall'alleanza organica con il totalitarismo sovietico. Berlinguer la riassumeva nell'occupazione delle istituzioni effettuata dai partiti della maggioranza.

Chiedeva un passo indietro a tutte le forze politiche e il ritorno alla Costituzione che la prassi aveva in larga misura stravolto a vantaggio degli apparati e delle "arciconfraternite" degli interessi costituiti. Apparve una battaglia moralistica, ma era anche un grido d'allarme contro la manipolazione della democrazia partitocratica che preludeva alla fase di Tangentopoli e alla supplenza della magistratura, con le luci e le ombre che comportò.

Purtroppo, passata quella fase, l'occupazione delle istituzioni è ripresa con rinnovato e impudente vigore, reso ancor più nefasto dal conflitto di interessi in capo al leader politico che ha inquinato il tessuto democratico ben più a fondo di quanto non fosse mai accaduto prima.

Ma quel che è più grave (come ha documentato in un suo recente lavoro Guido Rossi) sta nel fatto che il conflitto d'interessi non è più solo la malapianta estirpabile dal libero mercato; è diventato il connotato principale del capitalismo globale, industriale e soprattutto finanziario, sconvolgendo tutti i rapporti tra le varie categorie di operatori attraverso una rete inestricabile di partecipazioni incrociate tra imprese, banche, consulenti, professionisti, agenzie di rating, agenzie di certificazione dei bilanci, organi societari di controllo, Autorità delegate al controllo esterno e, infine, pubbliche amministrazioni e governi.
Le morali deontologiche che avrebbero almeno dovuto avere il pregio di distinguere i ruoli delle varie parti in causa e preservarne l'efficienza, hanno finito per esser l'alibi a comportamenti illeciti nella totale assenza di un sentimento morale unificante.
Se si pensa che quando il fondatore dell'economia di mercato, Adam Smith, scrisse il suo testo fondamentale sulla "Ricchezza delle nazioni", l'economia politica era considerata una branca della filosofia morale e lo stesso Smith insegnava quella disciplina ed era considerato prima di tutto un filosofo e poi, in seconda battuta, un economista; quando si misurano i mutamenti sopravvenuti da allora, si avrà il senso e la dimensione delle trasformazioni, degli avanzamenti, ma anche delle degenerazioni intervenute nel rapporto tra liberalismo, democrazia e capitalismo.

Su questo rapporto è forse arrivato il momento di una seria e urgente riflessione da parte di tutti gli attori in campo, politici, imprenditori, economisti, giuristi, intellettuali.

* * *
Quanto sta accadendo intorno alla Banca d'Italia in occasione delle scalate alle banche, fornisce la prova delle degenerazioni che sono penetrate nelle midolla del sistema. Ho letto con atterrito sbalordimento i testi delle telefonate intercettate dalla Guardia di finanza tra i protagonisti di quelle scalate, alcuni banchieri e il governatore della Banca centrale. L'assenza d'ogni limite morale e d'ogni regola è devastante. Ma lo è anche l'incertezza dei ministri, la connivenza di alcuni banchieri, la protervia della maggioranza parlamentare, la timidità di gran parte dell'opposizione.
Alte cariche istituzionali hanno cercato di deviare l'opinione pubblica enfatizzando la pretesa fuga di notizie concernente le intercettazioni telefoniche, ignorando volutamente che esse costituivano la documentazione indispensabile degli atti giudiziari disposti dalle Procure e dal Gip e come tali trasmesse in cancelleria a disposizione delle parti e dei loro difensori e non secretate né secretabili.
Questi comportamenti dei presidenti delle Camere, essi sì, andrebbero censurati perché configurano concretamente conflitti di competenza tra poteri dello Stato.

Ho letto con interesse l'intervento di D'Alema sul Sole24Ore. Tra molte considerazioni che condivido ce ne sono alcune che mi lasciano perplesso. Una in particolare. D'Alema si preoccupa dell'ipotesi che, in caso di presa di controllo di banche italiane da parte di banche straniere (anche se europee) il "cervello decisionale" delle nostre aziende di credito trasmigrerebbe all'estero con le relative conseguenze sulla politica creditizia nazionale.

La preoccupazione di D'Alema ha una sua motivazione cui non basta opporre la semplice trasparenza del mercato. Ma non spetta certo al governatore della Banca centrale darsene carico. Il governatore ha il solo obbligo di controllare la correttezza della procedura delle Opa e delle possibili scalate bancarie nonché i ratios delle banche coinvolte nelle operazioni. Le considerazioni strategiche sulla politica del credito spettano invece al governo e in particolare al ministro del Tesoro, pur sempre nel rispetto delle direttive europee vigenti in materia.

Il governatore deve assicurare piena parità tra gli operatori. Se questo non è avvenuto e se l'immagine dell'arbitro ne esce gravemente inquinata, egli deve trarne le conseguenze, se non le trae spetta al governo supplire a quella lacuna.

Quanto alle altre parti in causa, scalatori di dubbiosissimo conio, la Consob e la magistratura ordinaria hanno già intrapreso inchieste e adottato provvedimenti. Si dovrà andare fino in fondo poiché il credito è un bene pubblico e come tale interessa tutti i cittadini e le istituzioni che li rappresentano.

* * *
Anche la libertà di stampa è un bene pubblico, costituzionalmente garantito.
Pertanto eventuali scalate alle società editrici di giornali debbono avvenire con piena trasparenza degli attori e delle loro fonti di finanziamento.

Dalle - preziose - intercettazioni telefoniche risulta una rete di conversazioni che coinvolgono personaggi d'ogni genere e qualità. Per quanto riguarda la scalata tuttora in corso al Corriere della Sera quelle conversazioni mettono in causa addirittura il presidente del Consiglio. Credo non vi sia bisogno di segnalarne la gravità e la necessità che si proceda all'accertamento dei fatti senza remore di sorta.
Alcuni colleghi di altri giornali e commentatori di varia natura sono intervenuti sul supposto "patto" De Benedetti-Berlusconi e sui possibili effetti che avrebbero potuto derivarne sull'autonomia del nostro gruppo editoriale e in particolare di Repubblica. Se la loro preoccupazione era quella di contribuire alla difesa della nostra autonomia - che peraltro non è mai stata in discussione - a essi ha già risposto con grande chiarezza Ezio Mauro nel suo articolo del 3 agosto. La lettera di Carlo De Benedetti ha posto comunque la parola fine a ogni onesta preoccupazione in proposito. (Delle preoccupazioni non oneste non voglio parlare perché gettano solo disdoro sui loro autori).

Anche noi, per quanto è in nostro potere, cerchiamo di contribuire all'autonomia giornalistica del Corriere della Sera che, esso sì, è esposto al rischio di invasioni da dentro e da fuori dell'assetto proprietario esistente. Così facemmo anche ai tempi in cui l'invasione del Corriere avvenne e la P2 si insediò nelle alte stanze di via Solferino. In quello scontro Repubblica fu al fianco della redazione del Corriere e contro l'assalto che la P2 e i suoi prestanome editoriali avevano sferrato impadronendosi del giornale.

Purtroppo la libertà di stampa è un bene a rischio. Su di essa non ci si può addormentare. Ed è un bene che, come ho già detto, riguarda tutti.
Per questa ragione mi piace qui rinnovare a conclusione di queste mie note i sentimenti di affezione a Carlo De Benedetti, di considerazione della lettera che ci ha indirizzato e della decisione che ha preso e che ci rende più fiduciosi e più forti.

Post Scriptum. Arriva quando ho appena finito di scrivere questo mio articolo la lettera diretta al nostro direttore del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. I lettori giudicheranno direttamente il contenuto delle sue affermazioni ma un punto merita forse una puntuale risposta e riguarda la nomina del direttore generale della Rai effettuata l'altro ieri. In questa nomina e nella designazione del nuovo direttore generale il presidente del Consiglio è direttamente intervenuto come risulta da tutte le cronache, mentre proprio a causa del conflitto d'interessi avrebbe dovuto rigorosamente astenersi da ogni partecipazione a questo importante atto amministrativo.
Resta in tal modo confermato che il presidente del Consiglio dispone della televisione pubblica quanto se non di più di quella che gli appartiene per diritto proprietario. Mi sembra più che sufficiente per giudicare tutto il resto delle sue affermazioni.

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