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Articolo 21 - Editoriali
Politica, non solo mercato
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di Franco Bruni

da La Stampa

Quali sono i capitoli economici dei programmi contrapposti che la competizione politica dovrebbe spiegarci con concretezza? Classifichiamoli in due categorie. La prima riferita al settore privato, distinto in tre mercati: dei beni e servizi, del lavoro e del capitale. In tutti e tre la questione di fondo è migliorarne il funzionamento, con riforme che sfruttino le potenzialità di una «moderna economia di mercato», per dirla con Mario Monti. Le proposte alternative - e le loro eventuali convergenze al centro - debbono pronunciarsi su un'agenda di liberalizzazioni e di promozione della concorrenza, flessibilità, trasparenza, chiarezza e rigore delle regole da far rispettare.

Ma non c'è solo il mercato, perché in un'economia moderna non c'è solo il settore privato. Quello pubblico ne occupa fra un terzo e la metà. La gestione del settore pubblico può solo indirettamente riferirsi al mercato: le sue decisioni sono più schiettamente politiche e hanno il difficile compito di creare una rete di informazioni, incentivi e controlli capace di sostituire la funzione esercitata nel settore privato dai prezzi, dai profitti, dagli stimoli automatici con cui il mercato spinge le risorse verso gli impieghi desiderati. Il settore pubblico è cruciale perché il nostro benessere non può fare a meno del consumo diretto di beni pubblici: Scalfari ha ragione quando mi ricorda (La Repubblica del 21 agosto) che «non esiste soltanto la cultura d'impresa in un Paese maturo e complesso» e quindi il consenso per governare non può riguardare solo i temi dell'economia di mercato. Va detto però che il settore pubblico è cruciale anche per il fatto che i beni pubblici sono input indispensabili per la produzione di beni privati. Giovanni Demaria, uno studioso liberale sui cui libri di testo ho appreso la mia prima economia, voleva che elencassimo lo Stato fra i «fattori della produzione», al pari del lavoro e del capitale. Un solo esempio: la giustizia è preziosa come bene pubblico finale, per la vita individuale; ma di giustizia hanno anche bisogno le imprese, la cui produttività dipende molto dalla misura e rapidità con cui vengono fatti rispettare contratti e leggi che sono alla base degli affari.

Un programma politico deve perciò avere anche il capitolo dell'economia pubblica. Ed è un capitolo più difficile di quello dedicato ai mercati del settore privato. Perché il funzionamento dei mercati può contare su criteri abbastanza condivisi, che in molti Paesi si cerca da tempo di applicare. Mentre la gestione della cosa pubblica è un'arte meno codificata e che quasi dovunque dà risultati meno brillanti. Al punto che riformare l'economia è diventato quasi sinonimo di privatizzarla. Ma non è così: il capitalismo moderno non può fare a meno di vincere la battaglia politica e tecnico-organizzativa necessaria per produrre beni pubblici di più alta qualità.

Curare l'impegno di proposta politica in tema di settore pubblico significa anche affrontare seriamente due questioni. Quella dei costi della politica - come ridimensionarli e renderli più trasparenti - che è la vera sostanza della questione etica di cui tanto si parla con qualche vaghezza. E quella dei vincoli della finanza pubblica: combattere gli eccessi di disavanzo, debito pubblico, pressione fiscale, senza considerare la qualità degli impieghi delle risorse da cui nascono, è un esercizio che si è costretti fare nel breve periodo, in situazioni di emergenza, quando gli squilibri sono insostenibili. Ma in un programma di medio termine prima di tutto bisogna stabilire quanto e come spendere: per il sussidio e la riqualificazione dei disoccupati piuttosto che per liberare le strade dai Tir costruendo le autostrade del mare, quali e quanti beni pubblici vogliamo, con quali priorità e quali tecniche per produrli in modo efficiente. Altrimenti è impossibile decidere correttamente il loro finanziamento: con quante e quali imposte e tariffe, con quale e quanto debito.

Vorremmo vedere i politici discutere con chiarezza le loro diverse priorità in termini di impieghi pubblici delle risorse e di tecniche organizzative per ottimizzarne la produttività, sommare le spese che ritengono prioritarie, ricavarne l'ammontare di imposte presenti o differite che sono necessarie per finanziarle, schematizzare un programma pluriennale di bilancio al punto di poterlo spiegare con qualche semplice tabella in televisione.
Non solo mercato, dunque, nei programmi politici. E anche le questioni dell'economia pubblica sfidano la validità, oggi, in Italia, della distinzione fra destra e sinistra. Di solito si pensa che il pubblico è più importante per la sinistra. Ma anche su questo tema potrebbe emergere un denominatore comune, dettato dal buon senso e dal fatto che la gravità dei problemi supera la differenza di opinioni e di interessi: una sorta di agenda per far convergere gli sforzi verso un'operazione provvisoria «di centro» che risani e normalizzi il clima molto deteriorato della competizione politica.
franco.bruni@unibocconi.it

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