di Toni Fontana*
da L'Unità
ORA DOPO ORA il popolo della pace s'ingrossa e, da ieri, i severi palazzi che si affacciano su piazza 4 novembre subiscono l'assedio dei giovani che domani percorreranno i 24 chilometri che separano Perugia da Assisi. Pochi tra loro, che in media hanno 20
anni, riconoscono nei grandi manifesti affissi ovunque un giovanissimo Italo Calvino che, con Aldo Capitini e Pio Baldelli, porta uno striscione con la scritta «marcia per la pace per la fratellanza dei popoli». Correvano gli anni sessanta, c'erano l'Urss e la paura della guerra atomica. I ragazzi che affollano i bar, parlano del terrorismo e della guerra preventiva, le sciagure della nostra epoca. I telefonini di Flavio Lotti e Tonio Dell'Olio, instancabili organizzatori della marcia, sono «bollenti»; le adesioni sono più di mille e continuano ad arrivare. La Cgil sta organizzando i pullman per trasportare operai delle fabbriche, pensionati e cento portatori di handicap che apriranno la sfilata, gli scout distribuiscono 10mila zainetti del commercio equo e solidale portati in Italia dal comune di Agrate Brianza e confezionati da esuli tibetani che vivono in India, Amnesty allestisce check point lungo la strada per sensibilizzare sulla campagna per il controllo del commercio delle armi. Così, di minuto in minuto, prende corpo il «movimento». Per questo il laboratorio perugino è diventato un osservatorio privilegiato per vedere quali forme, quali proposte caratterizzeranno la marcia e soprattutto quale autorevolezza e quale forza saprà esprimere il movimento. Sarebbe miope non vedere che la marcia avviene pochi giorni dopo la tragedia di New Orleans che ha convinto ancor piu questi giovani che, come si legge nelle prime righe dell'appello della marcia «il mondo è sempre piu affamato, disperato, violento e violentato» e, per venire ai fatti di casa nostra, mentre il confronto nelle forze della sinistra si fa piu serrato. Tutto ciò non è affatto estraneo a questo mondo e, per gli organizzatori, non è facile reggere il timore della marcia, perché forti venti soffiano sulla barca dei pacifisti. Se, come ricorda Andrea Amaro del dipartimento internazionale della Cgil, «a partire dalle guerre nella ex Jugoslavia» vi era stato un «inasprimento» nel rapporto tra il popolo della pace e la sinistra, in quegli anni al governo, oggi i promotori della marcia respingono con irritazione l'accuse di «moderatismo». E stato un articolo di Lidia Menapace, pubblicato martedì su Liberazione, ad aprire le «ostilità». Vi si legge che la «piattaforma sulla povertà» corre il rischio di esprimere «un simbolico straziante, ma anonimo nel quale tutto si vede, ma non la guerra e ciò sembra reticente». Menapace definisce «molto giusta» l'iniziativa (della sinistra radicale) in programma ieri a Grosseto contro l'allargamento di Camp Darby (base Usa). Questa posizione è apparsa esagerata al responsabile esteri di Rifondazione, Gennaro Migliore, che, sul quotidiano diretto da Sansonetti, aderisce alla manifestazione perché la lotta alla fame è giusta e non «un semplice diversivo buonista». Il sasso comunque è stato gettato nello stagno pacifista e alcuni temono che gli argomenti simili a quelli della Menapace inducano qualcuno a restare a casa. Gli organizzatori invitano i critici a «leggere l'appello della marcia» dedicato in gran parte all'opposizione alla guerra e fanno notare che «non spetta a noi mediare tra le varie posizione della sinistra in vista delle primarie». Sergio Marelli, presidente delle Ong, di area cattolica, osserva che «è la politica che deve confrontarsi con noi e non il contrario, noi esprimiamo una vera autonomia della società civile, anche con Prodi sono rimaste alcune zone d'ombra, la dottrina sociale della Chiesa non risparmia critiche al liberismo che nel programma del Professore è un elemento forte». Il movimento «rischiava di restare bloccato solo sul no alla guerra - interviene però Luca de Fraia di Action Aid - ogni giorno muoiono di fame 30mila persone, coniugare pace, giustizia e solidarietà rappresenta per il movimento un grande passo in avanti». Anche una militante pacifista «storica» come Lisa Clark si rivolge «con affetto» alla Menapace dicendo però che «ha letto solo la propaganda degli altri, noi vogliamo il ritiro italiano sia dall'Iraq che dall'Afghanistan e lo abbiamo scritto nell'appello della marcia». Anche nell'arcipelago delle associazione di origine cattolica c'è però chi, come Antonio Tricarico di Mani Tese, vede il rischio di proporre un agenda «troppo ecumenica».