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Articolo 21 - Editoriali
Libano: stampa macchiata di sangue
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di Ferdinando Pellegrini

Forse non sarà neanche l'ultimo della serie di attentati che in un modo o
nell'altro stanno facendo cambiare ed hanno già in parte cambiato il Libano, ma è il secondo che colpisce chi attraverso gli organi di informazione, difendendo quella libertà fondamentale perché una democrazia possa definirsi tale, cerca in qualche modo, al di la dei giudizi di parte, di riaffermare il concetto secondo cui è necessario fornire elementi, opinabili quanto si vuole, ma che servano a provocare discussione, confronto e crescita dopo trent'anni di orientamento forzato. La bomba messa ieri  sotto la macchina di May Shidiak, una giornalista della televisione più diffusa in Libano, cristiana e legata idealmente al movimento delle "forze libanesi", è una ennesima riprova che le prime elezioni libere dalla presenza diretta della Siria sono state solo un passo, il primo forse, verso la democrazia compiuta e la riconquista di una tanto auspicata autonomia. Evidentemente i conti interni non sono stati ancora regolati se è a suon di bombe che si cerca di far tacere le voci che in qualche modo risultano scomode o almeno dissonanti. May è una donna coraggiosa che da protagonista dello schermo televisivo non ha mai lesinato critiche né si è mai negata nella difesa delle proprie convinzioni. Tutto però va legato alle indagini e agli arresti dei responsabili dei servizi di sicurezza conseguenti all'attentato a Rafik Hariri, che ha dato il via ad un movimento, risultato irreversibile, di democratizzazione. A pochi mesi dalle elezioni,
il Libano sta vivendo la fase più acuta delle contraddizioni interne, al punto che all'assemblea delle Nazioni Unite a New York erano presenti due delegazioni in aperta lotta politica, quella guidata dal premier Seniora e quella capeggiata dal presidente Lahud. E' chiaro quindi che i conti ancora non tornano, così come è altrettanto chiaro che le alleanze trasversali nate all'indomani della consultazione elettorale stiano facendo degenerare la faticosa via della democrazia. E non è un caso che molti esponenti di spicco della politica libanese preferiscano l'aria di Parigi a quella di Beirut vista la pericolosità della permanenza nel paese. E per di più il clima che si respira nella capitale è di una possibile imminente crisi istituzionale determinata all'interno dalla mancata approvazione della nuova legge elettorale, e all'esterno dagli inviti sempre più pressanti da parte dell'amministrazione americana per lo scioglimento delle milizie Hezbollah, interpretati come un vero e proprio ricatto perché possano affluire aiuti da parte della comunità internazionale ad un paese economicamente in crisi. Ecco allora rinascere le vecchie divisioni e le vecchie sciagurate alleanze che operano attraverso il terrorismo, e la soddisfazione sorniona di Damasco che è pronta a dichiarare: quando c'eravamo noi, tutto era tranquillo. Il fatto è però che parte delle responsabilità di quanto sta accadendo non può non ricadere anche sulle spalle proprio della comunità internazionale, incapace di sostenere progetti di democrazia che esulino dagli interessi di parte più o meno dichiarati, indirizzati a far valere le esigenze non della riconquistata libertà ma delle mire a medio lungo termine di paesi che alla regione mediorientale guardano con non nascoste mire di manipolazione. E' in questo contesto che gli attentati vanno visti, non frutto di una anarchia endemica, ma di manovre che nascono ben lontano da Beirut.

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