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Articolo 21 - Editoriali
Chiesa o lobby politica?*
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di Livia Turco

Quale rapporto il centro-sinistra deve costruire con la Chiesa italiana, con il sentimento religioso che torna a manifestarsi nelle nostre società anche nella forma di un inedito pluralismo? Uso non a caso lâ??espressione centro-sinistra perché condivido quanto affermato da Pietro Scoppola (La Repubblica del 27.09.05) che tocca al centro-sinistra definire una nuova politica ecclesiastica «in quanto eredi di quelle forze politiche e di quelle culture che nella Costituente hanno contribuito alla nuova definizione dei rapporti con la chiesa cattolica».
Chiesa o lobby politica?
Ma una politica ecclesiastica del centro-sinistra è difficile sulla base di una semplice alleanza elettorale, senza un soggetto politico coeso, senza l'Ulivo. D'altra parte, nel 1996, Romano Prodi coinvolse e conquistò parti significative del mondo cattolico, soprattutto l'associazionismo impegnato nel sociale, ma anche parroci e vescovi, non solo perché cattolico e per il suo carisma personale, ma anche perché portatore del progetto dell'Ulivo. Bisogna dunque correggere l'atteggiamento attuale secondo cui ciascun partito della coalizione gioca una propria partita per impostare le modalità e le sedi per costruire, attraverso il dialogo e il consenso, mediazioni e punti di vista condivisi.
D'altra parte questa è l'unica strada percorribile per tentare di capire e governare sfide inedite come i temi della bioetica, della vita e della morte. L'esempio della legge sulla fecondazione assistita lo dimostra. Se fossimo riusciti, nella passata legislatura, a costruire una legge condivisa del centro-sinistra avremmo evitato il referendum e la sua sconfitta. Non c'è dubbio che in ciò il centro-sinistra non è facilitato dalla posizione che è venuta gradualmente configurandosi nella Cei presieduta dal cardinale Camillo Ruini. Una posizione che lascia sullo sfondo l'animazione cristiana, la pastorale, l'annuncio profetico per preferire l'interventismo attivo nello scontro politico. La chiesa come potente «lobby politica» che traduce i valori cattolici in «interessi» trattati secondo la logica dello scambio politico. Un interventismo che ha dato i suoi frutti: statalizzazione degli insegnanti di religione, inserimento degli istituti cattolici nel sistema scolastico pubblico, legge sugli oratori, restrizioni alla legge sulla fecondazione assistita, cancellazione della proposta del divorzio breve. E che ricompare nelle parole pronunciate da Monsignor Levada al Sinodo sui politici che ammettono leggi a favore dellâ??aborto e su quegli elettori che, votandoli, commettono peccato.
Quanto sembra lontano il Convegno di Loreto del 1995 che fu in qualche modo il frutto maturo del Concilio Vaticano II! Allora, di fronte alla crescita del pluralismo nella società e alla maturità del laicato, la scelta fu quella di costruire una mediazione culturale. La scomparsa della Dc e il bipolarismo lasciarono spiazzata la chiesa che, anziché scegliere la strada dell'animazione cristiana nella società, della costruzione di punti di riferimento forti in ogni coalizione e di sviluppo della cultura della mediazione, scelse la linea dell'impegno unitario dei cattolici, con una chiesa fortemente centralizzata che ha visto diminuire il ruolo del laicato. Il tutto animato dal fascino del Papa polacco che mise in campo una chiesa militante orgogliosa e combattente.
Questo profilo interventista non è stato il solo volto del cattolicesimo nell'ultimo decennio. Si è intensificata la capacità della chiesa di prendere in carico le sofferenze della società e c'è stata la dimensione profetica, universalistica di papa Wojtyla confermata, mi pare, dall'attuale pontefice. Ma se il messaggio profetico ed universalistico di Papa Wojtyla conquistò il mondo lontano dall'Occidente perché incontrò la domanda di emancipazione umana e di riscatto sociale presenti in quella parte del mondo, non riuscì però a fare breccia nelle società secolarizzate dell'Occidente, soprattutto in quella europea. Ed è questo lo scoglio che l'attuale Pontefice sembra volere aggredire per «ricristianizzare» l'Europa. Il tema torna ad essere quello del rapporto tra la chiesa e la modernità. Esso fu affrontato in modo fecondo nel corso degli anni '70, dopo il Concilio Vaticano II, alimentando una grande stagione di dialogo e di sviluppo della democrazia, quando fare i conti con la modernità significò prima di tutto fare i conti con un'inedita e impellente domanda di giustizia sociale. In quel contesto fu anche più facile stabilire la distinzione tra «l'errore e l'errante» e l'incontro tra i valori di giustizia, di fratellanza, di dignità umana che scaturiva dalla società moderna e il messaggio evangelico.
Oggi il rapporto con la modernità coinvolge aspetti più duri e difficili dell'esperienza umana e del pensiero in cui più sensibili sono le lontananze originarie tra l'etica naturale, che è l'anima del cattolicesimo, e l'etica razionale propria della modernità e della secolarizzazione. Il principio dell'autonomia individuale, l'idea dell'uomo come artefice di se stesso - questa è la preoccupazione della chiesa - può portare all'autosufficienza, all'uomo demiurgo che si chiude in un solipsismo, alla convinzione che tutta la natura, naturale ed umana, sia manipolabile.
L'altra preoccupazione della chiesa è che l'obiettivo del benessere può forgiare un individuo solo desiderante che ricerca la felicità nell'appagamento del desiderio, nell'apparire attraverso l'esaltazione di una vuota esteriorità, e possa far sentire come fonte di realizzazione personale il consumismo e la mercificazione di ogni aspetto della vita umana. Ma, soprattutto, l'aspetto della modernità meno compreso dalla chiesa e che maggiormente continua a turbarla è la rottura dell'etica naturale nella sfera della sessualità e della procreazione attraverso il principio (io dico etico) della scelta e della responsabilità.
Mi chiedo: questa critica della modernità propria della chiesa non interpella anche una coscienza laica e tanto più una persona di sinistra? Deve essere inevitabilmente terreno di scontro e di contrapposizione? O non può invece motivare un incontro e un dialogo proprio a partire da ciò che non può non unire: la passione per l'uomo, la promozione della dignità della vita umana? Io penso di sì. Perché molti tratti della società moderna e secolarizzata che preoccupano la chiesa non solo comportano l'affievolimento della voce di Cristo nella società ma anche un impoverimento dell'esperienza umana in quanto tale.
Credo che il terreno dell'incontro debba e possa essere un progetto di rinascita della dignità umana. Ciò richiede alla chiesa di non sentirsi assediata e di non considerarsi autosufficiente, ma di avere l'umiltà di ascoltare l'esperienza umana, per imparare da essa. Recuperi allora la cultura del dialogo e della mediazione valorizzando soprattutto la funzione del laicato. Abbia profondo rispetto ed anche ascolto di quelle sedi pubbliche, della polis, in cui le persone, attraverso la comunicazione, lo scambio di argomenti, lo sforzo di persuasione reciproca, la leale osservanza delle procedure e delle regole - a partire dalle comuni domande - costruiscono di volta in volta, sui singoli argomenti, mediazioni e punti di vista condivisi.
Questa è la dimensione nuova della laicità che dobbiamo costruire, una dimensione che non limita l'intervento della chiesa ma che distingue tra la parola pubblica e quella strettamene politica ed istituzionale. Il progetto di rinascita della dignità umana per noi, donne e uomini di buona volontà che vogliamo costruire una società umana, implica innanzitutto il compito di riascoltare le ragioni di fondo della vita umana e di essere consapevoli che non è sufficiente essere dotati di un programma di governo della società.
Ma che tale programma sarà tanto più efficace quanto più sarà dotato di un'idea di società e contribuirà a definire la trama di un'etica pubblica condivisa. A partire da due grandi principi: la valorizzazione della dimensione relazionale e di apertura all'altro; il principio di responsabilità. La relazione, l'apertura all'altro deve diventare sempre più il connotato della libertà e della crescita individuale.
Una relazione scandita non solo in chiave interpersonale - io e tu - ma inserendo anche «l'altro», che ha un volto preciso ma che non è immediatamente percepibile.
Insomma, una relazione aperta e universalista che guardi anche all'interesse delle generazioni future. L'apertura all'altro scandisce la cittadinanza come responsabilità. Il valore della responsabilità deve essere inteso come impegno a rispondere a qualcuno e a rispondere dell'efficacia della propria azione orientata dei valori. Responsabilità come limite a ciò che l'uomo può fare, ma non deve fare. L'esercizio della responsabilità richiede che sia data fiducia al senso morale delle persone.
� forse questa fiducia nell'uomo che tante volte manca alla chiesa. Ma questa mancanza di fiducia non lo responsabilizza e non lo sprona a scavare nella bellezza della vita umana. Non lo sprona ad assumersi fino in fondo la sua responsabilità di soggetto morale ed invece la responsabilità verso se stesso e verso gli altri è la via maestra per affrontare con umanità e verità i temi della vita e della morte. Dignità umana (che comporta un'incisiva lotta alle disuguaglianze e allo spreco della vita umana), apertura all'altro, responsabilità, fiducia, cultura del limite, amorevolezza concreta nei confronti della vita quotidiana: questi valori non potrebbero costituire la trama di un'etica pubblica capace di costruire un nuovo umanesimo in questa vecchia Europa?

*da l'Unità

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