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Articolo 21 - Editoriali
Lâ??Italia in pasto alla Lega
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di Roberto Zaccaria*

Mentre il Paese va avanti con le primarie dellâ??Unione e i nuovi progetti di partito democratico, la maggioranza parlamentare, bloccata dai suoi anacronistici accordi interni, resta irrimediabilmente indietro. La maggioranza sempre più distante dalla gente, che ha visibilmente bocciato un assurdo e unilaterale progetto di legge elettorale, mostra uno stato confusionale assoluto nella conduzione dellâ??ordinaria agenda parlamentare, ma resta aggrappata al chiodo fisso della devolution: il ricatto della Lega pesa come un macigno.
Oggi la Camera è di nuovo chiamata a pronunciarsi sulla riforma costituzionale. � la seconda lettura e si tratta, complessivamente, del quarto passaggio parlamentare (tre sono già stati impegnati dalla prima lettura). Secondo il dettato della Costituzione non sarà più possibile apportare emendamenti al testo, ma solo approvarlo o respingerlo in blocco. Il voto parlamentare finale dovrebbe avvenire dunque al Senato. Ma per diventare efficace la riforma, approvata dalla sola maggioranza, ha bisogno della conferma referendaria e questa, anche se posticipata, per paura, a dopo le elezioni del 2006, lascia pensare ad una solenne bocciatura. Quelle 4.311.149 persone sono solo un'avanguardia gioiosa del referendum!
L'aspetto più sorprendente di questa c.d. riforma è il suo andamento intermittente (tipico dei fiumi carsici), rispettoso solo dei processi politici interni alla maggioranza e scrupolosamente attento ad evitare che dibattito nel Paese possa mai raggiungere un'intensità adeguata all'ampiezza, perlomeno quantitativa, del disegno proposto. Chi ha inteso in passato costruire una riforma organica della Costituzione diretta ad incidere in maniera rilevante sulla forma di stato e di governo ha sempre posto il progetto al centro del programma istituzionale della intera legislatura. � avvenuto in Italia con la Commissione bicamerale nel 1997/98, è successo nel passaggio dalla IV alla V Repubblica francese con il mandato al generale De Gaulle.
Il calendario parlamentare di queste settimane, sfoltito delle cose serie che non interessano (e vengono spregiudicatamente abbandonate), è a dir poco impressionante, nella sua nervatura essenziale: legge elettorale, riforma costituzionale e legge (ex) Cirielli.
Sembra incredibile ma il centrodestra anziché mascherarsi per presentarsi «in doppiopetto» agli elettori, ha scelto la strada opposta ed ha deciso paradossalmente di mostrare alla fine della legislatura una sintesi del suo più negativo repertorio. Nessuna considerazione verso il paese reale, in una sceneggiatura decisamente tragica. E a far le spese di questo disegno demolitorio è prima di tutte la nostra Costituzione.
Per la verità una significativa demolizione dell'impalcatura costituzionale è già cominciata da tempo, attraverso l'approvazione di tutta una serie di leggi ordinarie che hanno apportato modifiche sostanziali a quella che è la costituzione vivente. La controriforma dell'ordinamento giudiziario e dell'informazione, con la legge Gasparri, la controriforma della scuola e dell'Università, la demolizione di alcuni diritti fondamentali in materia di lavoro, previdenza e sanità ed infine, come una ciliegina sulla torta, la devastante riforma elettorale. Sembra quasi che si proceda intenzionalmente su due livelli distinti: sul piano parlamentare, ad una riforma devastante della seconda parte della Costituzione, che certamente alla fine non passerà, ma, sul piano effettivo, si procede ad uno svuotamento sostanziale e sistematico dei principali istituti di garanzia e dei connotati fondanti dello stato sociale.
Ma la parte più discutibile dell'intero progetto è costituita dalla devolution: termine mutuato atecnicamente dall'esperienza britannica, ma con ben pochi punti di contatto con quel modello e che, invece, sicuramente annienta la matrice federale, solidaristica e redistributiva della nostra Costituzione.
Nella Carta costituzionale del '48, all'art. 119, 4, si prevedevano infatti, «contributi speciali» finalizzati alla «valorizzazione» del Mezzogiorno e delle Isole o di singole Regioni. Con la riforma del Titolo V si era poi generalizzata la clausola, istituendo - a fianco dei principi di cd. federalismo fiscale - il «fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale» (art. 119, terzo comma, Cost). Inoltre il testo del 2001 aveva disposto la destinazione di «risorse aggiuntive» e previsto «interventi speciali» per promuovere «la coesione e la solidarietà sociale» e «per rimuovere gli squilibri economici e sociali». Un interessamento costante del legislatore costituzionale verso fini solidaristici, in una realtà nazionale estremamente diversificata.
Al contrario, la «devolution» mira direttamente, in nome (o meglio, con il pretesto) dell'autonomia regionale ad un abbandono dell'intervento di perequazione e di redistribuzione a tutto vantaggio delle zone «più ricche», lasciando di fatto al loro destino le zone più disagiate. Una ben singolare concezione dell'autonomia se si considera la contestuale soppressione della possibilità di ogni differenziazione regionale!
Non si può, infine, sottovalutare, infine , il fatto (come ha spesso sottolineato il Censis nei suoi rapporti) che la percentuale tra entrate proprie e totale delle entrate regionali sia nettamente inferiore al sud rispetto al nord: ciò, naturalmente, comporta, una capacità di intervento molto minore delle realtà più deboli.
Se si considera che il capitolo della sanità è il più gravoso per i bilanci regionali, si comprende come che il modello di una sanità completamente regionalizzata possa creare enormi difficoltà per le Regioni a minore capacità fiscale, tra l'altro, già penalizzate dal progressivo taglio dei trasferimenti dallo Stato che costituiscono una essenziale fonte di entrate.
Alle spinte disgregatrici si unisce anche una irragionevolezza di fondo delle scelte operate nel testo in discussione. Invece di creare strumenti di collaborazione tra i diversi livelli di governo e procedure di raffreddamento delle controversie, si inseriscono nuove esclusività che non potrebbero operare se non nel senso di un aumento esponenziale del conflitto istituzionale tra centro e periferie. A ciò si risponde con la «riesumazione» dell'interesse nazionale, per altro nella formula davvero originale del sindacato da parte del Parlamento in seduta comune. Forse non ci si è accorti che il sindacato sull'interesse nazionale non fu mai attivato prima del 2001, figuriamoci cosa accadrebbe affidandolo all'improbabile mediazione del Parlamento in seduta comune.
Ad arginare questo tentativo di folle disgregazione del Paese probabilmente non sarà sufficiente l'opposizione parlamentare, cui si aggiungono di tanto in tanto voci critiche dalle fila della stessa maggioranza. Sappiamo però che l'ultima parola spetta ai cittadini che con il voto referendario potranno riappropriarsi della loro sovranità e della loro Costituzione. Per tutti noi in ogni caso resterà forte un insegnamento: nella prossima legislatura non toccheremo la Costituzione, se non per renderne più forti le garanzie.

*da l'Unità

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