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Articolo 21 - Editoriali
Se la libertà diventa un prodotto
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di Oliviero Beha

da L'Unita'

Caro direttore, domenica scorsa ho ricevuto una telefonata da un collega di «Freedom house», no, non l'omonima Cdl di governo bensì l'ormai famigerata associazione che misura la libertà di informazione sul pianeta, la classifica stilata dalla quale Celentano ha mostrato anche ai ciechi nella prima puntata di Rockpolitik suscitando adeguato vespaio. L'Italia infatti veleggia molto indietro, subito dopo la Bulgaria (forse perché è da Sofia che Berlusconi promulgò la scomunica del trio).
Da «Freedom» volevano sapere se la persona citata quella mattina su Il Corriere della Sera tra gli intellettuali (??!!) di destra epurati dalla Rai di destra era la stessa citata contemporaneamente da Il Giornale di Berlusconi (Paolo, naturalmente), sotto il titolone «Rai, l'Unione prepara le truppe di occupazione», tra coloro che si apprestavano a riemergere dai margini di sinistra. Con un certo imbarazzo (loro stentavano a capire) ho dovuto spiegare che stavolta non era davvero un caso di omonimia. Ahimé, ero sempre io.
Stupore dell'interlocutore, che era però ancora più meravigliato da un risvolto trascurato della già notissima, almeno agli addetti ai lavori, classifica sulla libertà di informazione nel mondo.
E cioè che tale elenco si riferisce complessivamente all'informazione di un paese,e alle condizioni proprietarie della medesima: chi possiede che cosa, insomma, per farne che,con quali altri interessi, quale concentrazione di proprietà ecc. In una parola, di chi è e a che serve il potere dell'informazione. Ho obiettato che un premier con tre reti tv proprie e tre controllate politicamente, più tutto il resto riferibile a lui e alla sua famiglia direttamente o no, poteva tutto sommato considerarsi una certa,grande, enorme anomalia proprietaria.
Da «Freedom» hanno confermato: non a caso l'Italia è così giù in classifica. Ma hanno anche eccepito, questo è il risvolto di cui sopra, che Berlusconi non fiorisce in un deserto, è una specie che attecchisce in un habitat adatto. Per farla breve, Berlusconi rende terminale una malattia già avanzata. E l'Italia avrebbe bisogno alla radice di una revisione democratica,politica e culturale della libertà di informazione che oggi,spinta per la scesa dal Presidente del Consiglio, è appunto davvero «parziale». Ma, dicevano sempre da «Freedom», sembra che oltre Berlusconi, anche se per contestarlo giustamente, proprio non riusciate ad andare.
E se avessero ragione dagli Usa? Se fosse l'intiero paesaggio mediatico nostrano ad aver bisogno di una revisione totale, se insomma dar contro al Berlusca, e alle oscenità loiche che gli scappano quando anche come fisionomia si incattivisce (prima era più pacioso...), fosse necessario ma non sufficiente?
E che c'entra tutto ciò con il fatto che, lasciando perdere per decenza l'analisi semantico-politica del termine «intellettuale», a me capiti di essere schiaffato contemporaneamente a destra e a sinistra? Naturalmente alludendo implicitamente o esplicitamente al retropensiero del giornalista che di volta in volta fa il tifo o investe in borsa (politica) nelle azioni di uno schieramento o dell'altro per fare e ricevere favori, per impostare o sviluppare o correggere una carriera professionale? Con tutto il voltagabbanismo che ne consegue e di cui si riempiono gli stessi mezzi di comunicazione che di tali caratteristiche soffrono o godono,un voltar gabbana ai limiti del ributtante sul piano etico ma dello stracomico in fatto di drammaturgia nazionale?
C'entra eccome. Oggi non si dà evidentemente sulla scena italiana l'ipotesi di un giornalista o un intellettuale professionalmente di qualche livello ma non schierato o non utile a qualcuno. Che sta in alto. Che ha potere, o proprietà (cfr. «Freedom house») in qualunque forma. Un qualcuno che non siano ovviamente e semplicemente dei lettori,telespettatori, radioascoltatori da informare, no: anche perché i destinatari dell'informazione sono ormai considerati una massa che si immagina solo come merce elettorale, come consumatori di politica politicante molto spicciola.
Per questo dopo che Celentano ha stappato la bottiglia in pubblico adesso già si ciancia di censure e censurati esattamente come si ciancia di solito di tutto il resto, spandendo cioè sulla delicatissima questione una pellicola di superficialità che come sempre corrode il tessuto profondo dell'individuo e della collettività. Si aggredisce così come un virus il senso e il significato delle cose, si abbassa la soglia della facoltà critica,ogni questione è solo funzionale a qualche cos'altro, intesa sempre come mezzo e mai come fine. � diventato, il tema dell'informazione e della libertà di espressione, immediatamente un prodotto che tira, piazzato lì, sul bancone,vicino ai reality orrendi (bravo Adriano a sputtanarli così) o alle fiction sospette di filocomunismo strisciante (ma varrebbe anche al contrario, come mentalità).
E dunque per porre seriamente il problema della proprietà dei mezzi di comunicazione in toto in questo paese,tentare di sciogliere i lacci della politica di appartenza/dipendenza per i giornalisti, misurare il loro livello professionale come si fa con le categorie dei pugili appunto messi al peso, vedere cioè alla luce del sole o del datore luci in studio se è meglio Santoro o Masotti,Floris o Anna La Rosa ecc., che cosa deve succedere? Che vinca la destra? Si è già visto. Che vinca la sinistra? Era un po' meglio, ma la stramaledetta «filosofia» della invasività della politica era la stessa.
Per questo faceva bene Antonio Padellaro (e farebbe benissimo Prodi) a pretendere qui giorni fa professionisti capaci e verificabili, che non facciano prevalere un'idea politica sulla onestà del loro lavoro, che parlino tendenzialmente a tutti e non vengano scelti per il loro target politico di riferimento con il cortocircuito che ha trasformato questa categoria in fusibili privilegiati.
E se tale «rivoluzione culturale» del modo di intendere l'informazione ha da essere in questa direzione,che sia,ma che sia presto. Ormai infatti siamo quasi del tutto svuotati di significato e di ruolo (dico noi giornalisti, censurati o no, di destra o di sinistra, intellettuali o facchini da trasloco - ne conosco): giacché se un politico di primo piano va in tv in un programma di prima serata antropologicamente devastante «solo perché fa ascolto e lo rende più commestibile» appunto dal popolo di consumatori pubblicitari che votano, per chiunque votino, e si dimentica o vuole dimenticarsi che una settimana prima al posto suo c'era un ragazzo down utilizzato biecamente anche dopo, negli spot del programma, nell'ordine il «reato» culturale configurato dall'episodio riguarda prima la dignità della persona,poi quella della politica, quindi degli eletti,degli elettori, dei giornalisti in teoria filtri di un'altra idea e fruizione di politica,infine la consapevolezza media degli italiani in un paese che così rapidamente rotola e peggiora.
In tutto ciò non c'è dunque in ballo qualcosa di più di un'etichetta di partito o di schieramento? Non si prova un minimo,davvero un minimo di vergogna?Non siamo noi, tutti noi, in mezzo a un guado per di più assai paludoso in attesa che cambi il Caronte?
P.S. Per quel che vale, da «Freedom» mi hanno dato ragione e mi hanno consigliato di provare a esportare questo modo di pensare in Bulgaria, giacchè in Mongolia classifica alla mano avrei difficoltà ancora maggiori che qui, con il Berlusca e il berlusconismo, di destra e di sinistra.
www.olivierobeha.it

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