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Articolo 21 - Editoriali
Lasciare l'Iraq per salvare l'occidente
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di Ezio Mauro

� UNA tragedia dell´Occidente, quella che va in scena nelle prigioni dell´Iraq e rimbalza come un atto d´accusa nei siti Internet e nelle televisioni in ogni angolo di deserto e in ogni città araba. Quei corpi torturati, ammucchiati, trascinati al guinzaglio e scherniti sono di soldati musulmani: umiliati nella loro impotenza, degradati a irrisione sessuale dei loro codici culturali, profanati in simboli rovesciati delle loro credenze, trasmettono nel loro mondo un´idea terribile del nostro concetto di vittoria e della moralità del nostro potere tecnologico, militare, politico. A noi, al nostro mondo, chiedono ancora una volta, semplicemente, "se questo è un uomo".
Siamo nuovamente protagonisti di un sopruso sul singolo uomo che va al di là della guerra e che nessuna guerra giustifica. Tutto questo, da parte non solo del più grande esercito della terra e dell´unica superpotenza egemone dopo gli anni della guerra fredda. Ma in nome dell´Occidente e dei suoi valori, della democrazia, del diritto, del nostro ordine mondiale. Cioè di tutto ciò che noi siamo, di ciò in cui crediamo.

Non ha molta importanza, a questo punto, sapere se il Pentagono ha ordinato ai suoi soldati di superare ogni limite e ogni codice nei confronti dei prigionieri di Abu Ghraib, o se la violenza è insieme sistematica e "spontanea", dunque legittimata di fatto da un clima e da un metodo di conduzione della guerra. � importante per la giustizia e per la politica. Ma dal punto di vista della moralità pubblica, tutto è già perduto nel fondo di quella prigione, nei flash di quelle fotografie, nell´uso privato di quella tragedia pubblica che adesso tutto il mondo conosce. E anche se c´è stato ritardo, reticenza e imbarazzo (compresa l´Italia, purtroppo) nel denunciare la gravità della tortura, oggi è chiaro che niente è più come prima.
La moralità stessa dell´Occidente è sotto accusa, la sua cultura e i suoi valori. Dunque la sua anima. Per salvarla, non bastano le scuse e non basta nemmeno il sacrificio rituale di Rumsfeld chiesto tre giorni fa dal New York Times. Occorre un´assunzione di responsabilità, per ripetere ancora una volta ciò che diciamo dall´11 settembre: la democrazia ha il diritto-dovere di difendersi, colpendo (per paradosso anche preventivamente) chi minaccia la sua stessa sopravvivenza.
Ma - ecco il punto - può farlo solo a patto di restare se stessa, di rimanere dentro le regole che si è data, di sottomettersi ai valori e ai princìpi in cui crede, di confermare la sua identità distintiva.

In Iraq si è superato questo limite, estremo perché snaturante. � infatti il confine oltre il quale la democrazia incomincia a dubitare di se stessa, perché deve nascondere atti e comportamenti di cui si vergogna, e incomincia pericolosamente ad assomigliare in qualche angolo d´ombra al ritratto demoniaco che ne fanno i suoi nemici.
Ecco perché l´Italia oggi deve sentire il dovere di non restare in Iraq.
Deve andarsene, e per l´opposto di una fuga, di un ripiegamento, di una rottura di solidarietà occidentale. Anzi. Si impone un´assunzione di responsabilità, che separi la politica proprio in nome di una comunanza di valori e di cultura, che noi chiamiamo Occidente. Solo così si può far capire all´amministrazione americana, e anche a quell´opinione pubblica, che c´è un modo diverso di dirsi occidentali, che certe pratiche segnano una rottura, che l´Occidente non è mai stato un sistema di deleghe, e che certo non può esserlo per l´ordine di scatenare l´inferno ad Abu Ghraib.

La guerra era sbagliata, perché mancavano sia le armi di distruzione di massa, sia i legami operativi tra Saddam e Bin Laden, cioè le due pseudoragioni del conflitto. Era illegittima perché fuori dalla legalità internazionale, atto fondativo dell´unilateralismo libero e autonomo della superpotenza egemone. Era un errore anche politico perché spaccava l´Europa tra vecchia e nuova e rompeva la lunga alleanza novecentesca tra i due continenti. L´invio italiano di truppe a guerra che si pensava finita era un piccolo, grave gesto che mescolava titanismo e dilettantismo, velleitarismo e ideologismo, nella speranza ridicola di accreditare Berlusconi come miglior amico di Bush e la sua Italia come piccola potenza solitaria e gregaria in Europa.
Tutto questo è andato in frantumi, nella guerra che oggi si è riaccesa a Bassora e Nassiriya, ma prima e soprattutto nel buio del carcere delle torture.
Sono saltate, dopo quel che si è conosciuto, le regole d´ingaggio di una missione che ha promesso al Parlamento di voler "aiutare il popolo iracheno, garantendo la sua sicurezza". Oggi l´Italia deve sentire la responsabilità di rientrare: in Europa innanzitutto, per testimoniare nell´amicizia con gli Usa gli errori di Bush e la nostra concezione del diritto e della legalità internazionale. Solo da qui, da un rinnovato patto occidentale di regole e valori condivisi, può nascere una strategia utile per il dopoguerra iracheno e per la pace in Medio Oriente. Ma soprattutto questo è l´unico modo per salvare l´anima dell´Occidente, perduta nell´orrore di Abu Ghraib.

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