di Mario Lavalle
Dopo il Sic, un nuovo totem si aggira per il disastrato paesaggio della tv italiana. Si tratta della "capacità trasmissiva" e cioè dello spazio che una singola impresa televisiva , una tipologia di offerta , una singola trasmissione occupano sullo "spettro delle frequenze", e cioè sulla quantità di etere che la tecnologia e le convenzioni internazionali destinano alle diverse forme di diffusione in un determinato territorio, per consentire un ordinato svolgimento di trasmissioni e ricezione.
In particolare l'attenzione si appunta oggi sulla "capacità trasmissiva" utilizzata dalle tv terrestri , analogiche o digitali che siano: infatti questa modalità di trasmissione è quella che raggiunge la larghissima maggioranza degli utenti e sulla quale si affolla il grosso delle imprese televisive e degli introiti pubblicitari che le alimenta.
Questa risorsa tecnica oggi non solo è scarsa, ma è anche stata massicciamente occupata dai principali attori televisivi: Mediaset, Rai , Telecom . Nè appare in grado di soddisfare tutti i potenziali utilizzatori, nonostante la moltiplicazione dei segnali trasportabili conseguente al passaggio dalla tecnologia analogica a quella digitale.Si sostiene dunque che ,di fronte alla necessità di aumentare il pluralismo ( culturale, politico, imprenditoriale ) così carente sul mercato televisivo italiano , sia indispensabile e risolutivo suddividere in modo conveniente , e quindi limitare , la "capacità trasmissiva" a disposizione di ogni singola impresa , in modo da favorire l'ingresso sul mercato di nuovi attori, nuove forme di offerta, nuovi linguaggi.
Questa esigenza e questa prospettiva, in se del tutto razionali e opportune, non bastano però da sole a risolvere i problemi del pluralismo e della effettiva concorrenza se non tengono conto di alcuni fatti e fattori che rischiano di contraddirle e vanificarle.
Il primo fattore da considerare è la continua evoluzione tecnologica che , assieme a sempre più sofisticati sistemi di codifica dei segnali, consentirà di trasmettere progressivamente un maggior numero di programmi sullo stesso segmento di frequenze.Con il rischio che la "capacità trasmissiva" si riveli in realtà un limite provvisorio destinato a divenire rapidamente evanescente.
Il secondo elemento da considerare riguarda la non linearità tra capacità trasmissiva disponibile e fatturati che si possono realizzare operando attraverso di essa. Se Mediaset fattura circa il 60% della pubblicità televisiva nazionale ( e Canale 5 , da solo, circa il 30% ) non è soltanto perchè controlla ( alla pari della Rai ) quasi il 50% delle frequenze terrestre disponibili.Conta , appunto , la posizione dominante di Canale 5 che traina le altre due reti,conta la struttura chiusa e "controllata" del mercato pubblicitario ( anche attraverso il possesso diretto -assieme alla Rai - dell'Auditel), conta la mancata soluzione del "conflitto di interessi" tra il proprietario di Mediaset e il "dominus2 di una larghissima parte delle organizzazioni partitiche italiane
Il terzo fattore è legato proprio alla logica che sta alla base della convergenza digitale. Il fatto cioè che lo stesso prodotto sotto forma digitale , possa essere distribuito, oltre che nella tradizionale forma del segnale terrestre , anche attraverso il satellite, il cavo telefonico , la rete cellulare dei telefonini . Esempio lampante di questa convergenza tecnologica sono oggi le partite di calcio offerte in pay-per-view attraverso il satellite ( Sky) , il digitale terrestre (Mediaset e Telecom) , la rete telefonica in ADSL ( sempre Telecom).
Come si vede allora la distribuzione di uno stesso prodotto potrà avvenire attraverso un mezzo sottoposto al controllo della capacità trasmissiva ( il digitale terrestre ) o attraverso mezzi (satellite e ADSL) la cui capacità è praticamente illimitata o difficilmente controllabile.Potrà avvenire così che alcune aziende ( per esempio la Rai ) siano destinate a essere soggette a forti limitazioni della loro attività prevalente , mentre altre ( per esempio Sky e Telecom ) potranno tranquillamente agire in posizione di monopolio ( Sky) o di espansione in mercati contigui della loro posizione dominante (Telecom).Una accentuazione delle limitazioni imposte alla capacità trasmissiva terrestre non accompagnata da equivalenti interventi sui fatturati e sugli incroci tra mercati diversi finirebbe dunque per favorire esclusivamente le aziende più forti dal punto di vista del fatturato e della forza finanziarie e cioè, nell'immediato, le società telefoniche.
Appare così evidente che la ripartizione e la limitazione della "capacità trasmissiva"disponibile per la diffusione digitale terrestre , pur opportuni per risolvere a breve termine il problema del pluralismo sul mercato della televisione tradizionale, vanno integrati e completati da altri interventi "antitrust" che riguardano precise limitazioni all'operatività su mercati contigui, il "controllo" del mercato pubblicitario , la possibilità di detenere globalmente e indefinitamente la proprietà e la disponibilità in esclusiva di determinati prodotti ( per esempio certi tipi di manifestazioni sportive, le libraries cinematografiche , grandi eventi culturali o sociali).
Ma sopratutto, se vogliamo ottenere che attraverso la convergenza digitale crescano e si consolidino sul nostro mercato aziende che , agendo in modo integrato sulle diverse forme della mutimedialità , raggiungano dimensioni adatte a sostenere la competizione e nello stesso tempo rispettino le regole della concorrenza , della accessibilità dei mercati e del pluralismo culturale , dobbiamo stabilire una serie di principi generali : che , senza assumere la forma di norme stringenti ( sempre eludibili ed eluse per la logica dell'evoluzione tecnologica e la difficoltà di affidarne il rispetto alla magistratura), vengano affidati per la loro attuazione a un Autorità indipendente dotata di grande autorevolezza e potere , incaricata di guidare e regolare lo sviluppo dei mercati nell' interesse del paese e nel rispetto della norme sovranazionali.
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Alla luce di quanto fin qui detto appare spiegabile ma tuttavia sorprendente l'enfasi con cui la Rai sta affrontando in questi giorni il contenzioso che la oppone al governo e all'ITU per le frequenze transfrontaliere necessarie a ottimizzare ( quando mai avverrà) il piano nazionale di trasmissioni digitali. Sorprendente perchè non tiene conto delle responsabilità per le carenze e le inazioni con cui la Rai ha seguito il problema negli anni scorsi( avendo ai posti di responsabilità gli stessi dirigenti che oggi lanciano l'allarme); così come non tiene conto dell'accumulo di frequenze che la Rai (come, e in misura maggiore , Mediaset ) ha compiuto in occasione della costruzione delle reti digitali terrestri.Sicchè oggi la Rai ( come , in misura maggiore , Mediaset) dispone di un numero di frequenze ( le frequenze non sono nè analogiche nè digitali : possono essere "utilizzate" per trasportare segnali analogici o segnali digitali) di molto superiore a quelle utilizzate dai suoi omologhi tedeschi o inglesi : e questo rende non significativi i confronti perziali che si fanno in questa occasione.
Ma quello che rende del tutto contradditorie e non credibili la protesta e la preoccupazione della Rai è l'uso assolutamente inefficace che la Rai stessa fa delle frequenze che ha comprato e delle quali ora dispone.Mentre è di questi giorni la dichiarazione, da parte di Mediaset, del superamento del "break-even-point" relativo alla utilizzazione delle sue reti digitali per la distribuzione di prodotti " pay- per- view", la Rai si attarda da più di un anno a sviluppare sulle sue nuove reti prodotti ( Raidoc, Raiutile ecc) che definire inconsistenti è certamente eufemistico (Così come, dopo i positivi accordi del 1999 con Tele+ e Rcs per la produzione di canali satellitari , non è riuscita a sviluppare nessun'altra consistente iniziativa nel settore dei new-media e rischia anzi di concludere negativamente l'esperienza con Sky ).
La rincorsa ( ripeto, legittima e necessaria ) che la Rai va oggi operando alle frequenze per le trasmissioni terrestri appare dunque , di fronte alla insufficienza con cui il servizio pubblico affronta il problema della produzione e della diffusione per gli altri mercati multimediali, come la reazione di un impresa ferroviaria che ,di fronte alla perdita di utenti dovuta allo sviluppo dell'automobile come nuovo mezzo di trasporto , si concentri sull'ottenimento di nuove concessioni per la realizzazione di nuovi percorsi su rotaia.
Da molte parti, e da molto tempo,ed in tutte le sedi ci si riempie la bocca affermando che priorità strategica di ogni impresa della comunicazione e compito primario del servizio pubblico sono quelli di ideare e produrre nuovi contenuti e prodotti da distribuire su circuiti della distribuzione che progressivamente si ampliano e si differenziano.
E' troppo chiedere che la Rai rispetti e realizzi , anche nella sua agenda strategica , queste priorità ?