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Afghanistan, Papa e Rom si contendono le aperture; solo il Tg 3 "vede" la crisi dell'Università
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di REPORTER SENZA RETE

Afghanistan, Papa e Rom si contendono le aperture; solo il Tg 3 "vede" la crisi dell'Università
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  • La notizia giunta nel pomeriggio della morte del soldato italiano in Afghanistan è l’apertura dei primi telegiornali della sera. Studio Aperto, Tg4 e Tg3 vi dedicano ampio spazio anche nei servizi. Stessa scelta per il Tg2. I  due principali telegiornali delle 20, Tg5 e Tg1, invece aprono  con il fallito attentato al Papa e relegano la vicenda del militare ucciso rispettivamente in seconda e terza battuta. Il Tg1, subito dopo la cronaca sulla visita del pontefice in Gran Bretagna, preferisce parlare, e con grande enfasi, del decreto su Roma capitale con ospiti in studio il sindaco Alemanno e il presidente del Piemonte Cota.  
    Decisamente diversa rispetto agli altri l’apertura del Tg La7. L’argomento è ancora il problema  Rom ed il Tg diretto da Enrico Mentana, confeziona due servizi in cui fa vedere come vive il popolo nomade in Romania ed a Milano. Nello stesso Tg grande spazio alla politica con ospite in studio il direttore di Repubblica Ezio Mauro per parlare delle  tensioni nel Partito Democratico. Inoltre propone nuovi elementi sul fatto legato alla famosa casa di Montecarlo, mostrando in studio una copia del contratto di affitto che presenta alcune anomalie nelle firme. Mentana non tralascia nemmeno i problemi della concorrenza e manda in onda un servizio sul braccio di ferro tra la direzione generale della Rai ed il giornalista Michele Santoro sulla nuova edizione della trasmissione Anno Zero. 
    Tornando ai Rom, le loro vicende sono citate nei titoli del Tg4, che continua a rassicurarci che non tutti gli “zingari” sono dei malviventi, del Tg3 e Tg2, che più seriamente si occupano rispettivamente di come i sindaci affrontano il problema e come vivono i nomadi nella periferia parigina.
    Il Tg3 è l’unico telegiornale a ricordare che 25 anni fa veniva condannato ingiustamente un uomo per bene, Enzo Tortora, e lo stesso telegiornale è l’unico che al suo interno si occupa, attraverso un ampio e completo servizio, dell’assemblea di questa mattina all’Università La Sapienza di Roma di tutti i ricercatori italiani penalizzati dai tagli alla ricerca e dalla nuova riforma universitaria proposta dal ministro Gelmini. Proprio questo sarà l’argomento del nostro spazio commento di oggi, con l’intervista ad Alessandro Ferretti, ricercatore del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino.
    Infine segnaliamo a tutte le meretrici d’Italia di fare attenzione nel caso dovessero trovarsi a svolgere la loro attività dalle parti del Comune di Martinsicuro in provincia di Teramo. Perché, come ci informa Studio Aperto, il sindaco ha appena emesso un’ordinanza che vieta qualsiasi rumore provocato dagli amplessi. Siamo sicuri che anche i clienti si atterranno a tali disposizioni, così la quiete pubblica sarà salva.

    Allora: venticinquemila ricercatori, questo è il patrimonio culturale, progettuale e prospettico dell’Università italiana. Di questi venticinquemila la gran parte si sono mobilitati contro la riforma Gelmini; ma questo fatto lo si vede, come si è visto oggi nella grande Assemblea Nazionale tenuta alla Sapienza di Roma, ma si percepisce molto di meno nel mondo dell’informazione e della comunicazione. Vi sentite orfani di attenzione?
    “ Diciamo che l’abbiamo dato tutti un po’ per scontato, nel senso che sappiamo bene che, purtroppo, certi temi, come la difesa delle istituzioni pubbliche, trovano molto poco spazio sui giornali. Si preferisce parlare, non so, dei casi di bullismo nelle scuole, di malversazione dei concorsi: queste sono le cose che appassionano i metti. Invece chi lavora non fa rumore, e quindi non finisce mai sui giornali. È anche per questo che ci siamo decisi a fare una mobilitazione forte con la rinuncia alla didattica, perché sappiamo bene che, in questa Italia, l’unico modo per farsi sentire è, purtroppo, quello di creare un disagio,  di far capire che non tenendo conto delle esigenze della società e dell’università alla fine il sistema si blocca”.
    Noi che analizziamo le evoluzioni, o le involuzioni, del sistema informativo televisivo pubblico e privato abbiamo notato negli ultimi mesi la “tecnica dei tetti”, una formula che in qualche misura baratta i diritti sacrosanti ad essere ascoltati, individuali e collettivi, con i diritti televisivi. Per farla breve: per essere ascoltati, anche su temi così importanti come il destino di tutti gli studenti di questo paese, bisogna fare qualcosa di particolare. Voi - oggi, con questa iniziativa - avete messo i piedi nel piatto? 
    “ Noi adesso, con questa iniziativa, abbiamo cercato non solo di dare visibilità, ma di programmare iniziative che siano incisive oltre che sui mezzi d’informazione, direttamente sulle persone. Siamo infatti usciti fuori con le date del  4-5-6 ottobre per informare direttamente gli studenti senza mediazioni, perché sappiamo bene che, alla fine, con questa informazione mediata, a volte così distratta, a volte che proprio ignora colpevolmente dei fatti, non è tenuta in grandissima considerazione dalle persone dal punto di vista della credibilità, mentre sappiamo bene che mettere la faccia avanti e dire le cose come stanno ad un pubblico di persone vere può avere un effetto molto più dirompente di tanti giornali. Quindi, invece di contare tanto sull’aspetto mediatico abbiamo deciso di contrare sull’aspetto sostanziale. Speriamo che i risultati ci diano ragione”.
    I ricercatori dell’Università italiana sono quindi una categoria intermedia, tra i docenti più classici, più consolidati, e gli studenti. Abbiamo capito quali sono i vostri rapporti con la Gelmini, ma come sono col corpo accademico più tradizionale e col corpo studentesco?
    “ Col corpo accademico tradizionale, con i professori, diciamo che il rapporto è in genere abbastanza buono. È molto più difficile con le istituzioni accademiche, quali presidi e rettori; solo in pochi casi abbiamo visto presidi in grado di capire la portata del problema. Molti si trincerano dietro questioni procedurali, burocratiche, ci ostacolano in ogni modo. A volte ci sono, addirittura, situazioni ai limiti della legalità nei consigli di facoltà; questa è una cosa di cui, chiaramente, la storia chiederà conto ai presidi ed ai rettori di questo periodo, perché stanno veramente dissipando una grande occasione di portare alla luce dell’opinione pubblica la situazione dell’università. Per quanto riguarda gli studenti, ovviamente, non possiamo generalizzare. Di sicuro, però, loro apprezzano molto le lezioni dei ricercatori, perché sono più giovani ed anche perché possono dare un po’ d’entusiasmo in più. I giovani ricercatori sono persone che hanno fatto anni di precariato pur di arrivare a questo ruolo, e quindi sono guidati da una grande passione, sia per la ricerca che per la didattica. Questa cosa, in generale, si traduce anche in ottimi rapporti dal punto di vista personale, che speriamo di mettere a frutto per cercare di creare una mobilitazione condivisa su problemi che riguardano tutti”.
    Visto che siete stati, e siete, poco illuminati nelle vostre piattaforme rivendicative, che poi non sono solo rivendicative o corporative, in pochi secondi ci può sintetizzare il perché del vostro NO alla Riforma Gelmini?
    “  La riforma Gelmini? A parte l’evidente questione dei finanziamenti alle università, che , voi saprete, dall’anno prossimo non avranno neanche i soldi per pagare gli stipendi: sono previsti sei miliardi e cento milioni di fronte ad un monte stipendi di sei miliardi e mezzo, ma questo è un appunto che esula da Ddl Gelmini. Il Disegno di Legge Gelmini fa, in pratica, due cose gravi: il governo degli organi accademici, dove praticamente si da in mano tutto il governo dell’università (come la decisione di aprire linee di ricerche, fornire posti, aprire la didattica e tutte le altre decisioni importanti) in mano ad un consiglio di amministrazione che non è ne eletto, ne in qualche modo espresso democraticamente da insegnanti, studenti e ricercatori, ma è designato integralmente dal rettore e comprendente persone che devono avere come qualifica l’abilità nella gestione di questioni finanziarie. Questo preoccupa molto, perché pensare di gestire l’università secondo questioni finanziarie è assolutamente improponibile; pensiamo solo alla sanità: la sanità e l’università non sono dei prodotti commerciabili del mercato, ma sono dei beni essenziali, non possono –secondo me  - essere gestiti secondo criteri puramente finanziali. Altra cosa grave riguarda il personale. Quando noi diciamo che più del 90% dei soldi che viene dato all’università viene speso in stipendi, ciò dovrebbe far riflettere su come il primo bene dell’università sono le persone che ci lavorano dentro. Si può avere il più bel laboratorio del mondo, ma senza un bravo ricercatore che vi lavora quella struttura è sprecata. Lo sanno bene gli Stati Uniti, che importano continuamente cervelli, soprattutto dall’Italia. L’unica garanzia per avere una buona università è quindi cercare di motivare in ogni modo il personale, dandogli quindi l’opportunità di lavorare ed anche l’opportunità di carriera. Tutto questo manca clamorosamente nel Ddl. I ricercatori vengono messi su un binario morto ad esaurimento, ed i ricercatori precari vedono allungarsi il loro periodo di precariato ad oltre i dieci anni. Chiediamoci chi è la brillante persona che, per fare la carriera universitaria, si butta in un percorso di almeno dieci anni di precarietà senza alcuna garanzia che non vi sia un taglio ai finanziamenti, e che a quarantadue anni non si debba trovare un lavoro altrove. Questo è un modo per disincentivare il miglioramento dell’università, ma è il modo più sicuro per causarne l’affossamento”.


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