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Articolo 21 - Editoriali
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di Vittorio Emiliani*

� decisivo per la vita politica italiana dei prossimi anni, e forse decenni, questo referendum costituzionale sul quale andremo a votare fra una decina di giorni. Eppure attorno ad esso continua a pesare una fitta coltre di nebbia e di silenzio, soprattutto da parte di quel servizio pubblico radiotelevisivo che dovrebbe avere già informato in modo minuzioso e imparziale i 16 milioni di nuclei famigliari ad esso abbonati e quegli altri milioni che vedono i programmi Rai a scrocco. Passi per Mediaset il cui padrone è direttamente implicato nella vicenda referendaria e che da un astensionismo di massa (il quale favorirebbe il Sì) ha tutto da guadagnare politicamente. Tanto più che egli è alla costante ricerca di una rivincita a breve rispetto alla sconfitta di misura patita alle politiche (e confermata alle amministrative).
Ma la Rai - la quale incassa tuttora, pur col canone più basso e più evaso d'Europa, quasi 1 miliardo e mezzo di euro dai propri abbonati - doveva sentire il dovere di informare per tempo e in modo adeguato la platea degli utenti-elettori sulla «nuova Costituzione» sfornata dalla Casa delle Libertà (fra le quali sta pure la libertà di trasformare l'Italia in un ingovernabile e costoso spezzatino). Non era gran cosa il pasticcio del Titolo V confezionato, anch'esso a maggioranza, dal centrosinistra. Ma qui siamo ad un assetto statuale che promette una sorta di premier-caudillo, con un Parlamento il quale, alla fine, si paralizza da sé. Con toni giustamente indignati, ieri mattina, nell'articolo di fondo del Corriere della Sera Giovanni Sartori ha denunciato questa grave latitanza in materia da parte della Rai dove il sonno della nuova maggioranza di governo, timorosa di fare una mossa coraggiosa e innovativa, consente «che il referendum costituzionale sia gestito, senza nemmeno cambiare un guardialinee, dalla tv colonizzata da Berlusconi».
Anzi, a parte un notturno confronto su Raitre fra il costituzionalista Roberto Zaccaria e uno degli autori del pastrocchio, Domenico Nania di An, a parte i servizi del Tg3, le schede che vengono presentate sono ridotte e fuorvianti, limitandosi per lo più a pigiare un solo populistico pedale: quello della riduzione del numero dei parlamentari, la quale è, in realtà, di portata più limitata di quella proposta da sinistra, e che comunque diventerà realtà soltanto nel lontano 2016! Dâ??accordo, spiegare un simile intrico di norme non è semplice e però ci si può riuscire con un poâ?? di pazienza e di professionalità giornalistica. L'ha fatto assai bene in una nota succinta Giampiero Orsello che di Rai e di comunicazione se ne intende, in una quindicina di punti. Dai quali emerge essenzialmente che, con la Costituzione del centrodestra, mentre sbiadiscono fortemente i ruoli del presidente della Repubblica e del Parlamento, si rafforza in modo inaccettabile il ruolo del premier, il quale può sciogliere da sé le Camere o provocarne la fine dimettendosi lui. Non è più previsto del resto il voto di fiducia dei due rami del Parlamento sul nuovo governo, ma soltanto un voto sul programma. Ã? il premier poi che nomina e revoca i «propri» ministri. Tutto da sé.
La sua figura diventa tanto più egemone in quanto i due rami del Parlamento finiscono per entrare in collisione fra loro, coi provvedimenti legislativi sottoposti ad una sorta di gioco dell'oca in cui si torna spesso indietro e quindi con una paralisi parlamentare reciproca. Muta la composizione della Corte costituzionale con un aumento di giudici di nomina sostanzialmente politica. Diminuiscono di numero i senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica che può essere pure (viva il giovanilismo) anche un quarantenne. Tra le chicche c'è pure il ruolo della capitale, Roma, le cui competenze sono sostanzialmente stabilite dalla Regione Lazio. Visto che i poteri delle Regioni vengono grandemente aumentati, serviva semmai una capitale tipo Berlino o Washington. Nossignori, essa è praticamente ridotta al ruolo di capoluogo regionale del Lazio. O poco più. Del resto c'è in ballo la famoso «devolution» (vi raccomando la corretta pronuncia) e qui rischia di cascare, anzi di stramazzare, la povera Italia fatta a pezzi. In tutti i sensi.
Secondo Il Sole 24 Ore, il valore finanziario delle competenze da trasferire è pari ad almeno 270 miliardi di euro (secondo uno studio di Banca Intesa, sarebbero 277), cioè il 40 per cento dell'attuale spesa pubblica totale. Soltanto il costo del personale potrebbe ragionevolmente lievitare di 1,4 miliardi di euro. Con questi chiari di luna èuna bella notizia. Per contro il valore delle imposte da cogestire si limita ad un gettito di 180 miliardi. Vediamo già ora quante difficoltà comporti contenere la spesa sanitaria di Regioni particolarmente spendaccione (dove la sanità, fra l'altro, funziona peggio, come la Sicilia). Inoltre le spese decentrate corrono, in genere, più veloci delle risorse fiscali e, soprattutto, delle entrate proprie che è assai impopolare e scomodo procurarsi presso una platea ravvicinata di elettori-contribuenti. Proseguire nel decentramento delle competenze è sacrosanto, anche per eliminare quelle «zone grigie» fra Stato e Regioni fonte di una vertenzialità assai ampia e aggrovigliata. Ma, un conto è lavorare con continuità e gradualità a questi processi di regionalizzazione, un altro dare luogo, per ragioni di bandiera politica, ad una scorpacciata improvvisa la quale rischia di far morire, in un colpo solo, cavallo e cavaliere.
Quanto alla Rai, il governo se può batta un colpo, a cominciare dal ministro del Tesoro al quale spetta la nomina del direttore generale. Che Alfredo Meocci - voluto da Berlusconi, poi rimastone deluso - fosse incompatibile lo sapevano pure le matricole di Giurisprudenza. Che non fosse propriamente una star del management radiotelevisivo era intuibile (ma l'abbiamo scritto in pochissimi). Ora il medesimo resiste ad ogni sollecitazione ricorrendo alla carta bollata. Così un'azienda da 10mila dipendenti e da 2,5 miliardi di fatturato rimarrà chissà per quanto acefala in un momento strategico, avendo quel genio di Flavio Cattaneo di nuovo accentrato poteri enormi nelle mani del direttore generale, eliminando in un attimo le divisioni funzionali e rattrappendo quindi l'autonomia delle reti. Più che di stupirci chiediamo al governo Prodi di non deluderci su alcuni punti nodali fra i quali certamente, in prima fila, figura il servizio pubblico radiotelevisivo.

*tratto da l'Unità

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