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Articolo 21 - Editoriali
La misura di Murialdi
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di Angelo Agostini

da Europa

 

Paolo Murialdi non câ??è più. Io scrivo, però, avendo sottâ??occhi la bella immagine che Repubblica ha messo ieri a corredo dellâ??articolo di Bernardo Valli in morte di Paolo.

Murialdi è lì, alto, bello con i suoi capelli bianchi, appoggiato a chissà che cosa, mentre guarda sornione la copertina di un libro. Quante volte glielâ??ho visto quello sguardo. Un poâ?? ammirato, perché il libro era per lui la misura che resta. Sempre curioso, perché i libri erano per lui miniere, percorsi da seguire alla scoperta di qualche cosa di nuovo. Vagamente canzonatorio, perché nei libri avrebbe trovato sempre lâ??imprecisione, lâ??errore, lo svarione. Sempre, quando è capitato a me di scrivere, Paolo ha trovato qualche cosa per la quale mi sono poi mangiato le dita.

Murialdi amava i libri. Così amava gli studi, insofferente comunque al paludamento accademico. Così amava la ricerca: lâ??accumulo paziente dei dati, che potesse dare la base a riflessioni argomentate e documentate sui media e sul giornalismo, ma sempre scritte in lingua comprensibile anche a chi non fosse specialista.

Paolo amava talmente i libri che qualche anno fa aveva fatto dono della sua biblioteca allâ??università di Torino.

Paolo Murialdi amava il lavoro, la fatica è la misura della scrittura per il libro. Forse è stato il primo, nel giornalismo italiano, che ha saputo davvero passare quel ponte.

Prima câ??era la memorialistica o la scrittura romanzesca. Dopo câ??è stato, poco praticato, ma in ogni caso presente, lâ??impegno serio di alcuni giornalisti nel pensare, ricostruire e analizzare il modo in cui loro stessi e le loro testate avevano contribuito a fare la storia del nostro paese.

Indro Montanelli non è certo il termine di paragone. Murialdi di sicuro lo stimava, non so se lo amasse. La franchezza e la spregiudicatezza dei suoi commenti privati erano contraltare alla moderazione e alla misura dei suoi saggi. Ma Montanelli davvero non câ??entra. Murialdi sâ??era impegnato dal 1973 in tuttâ??altro compito. La sua missione era lâ??indagine sul modo in cui prima i giornali, poi tutti gli altri media, avessero pesato, contato o sbagliato nello scrivere la storia civile dâ??Italia. E il nodo è chiaro: perché quellâ??aggettivo civile? Perché quel protagonista: i giornalisti e i media? Trentâ??anni fa Paolo Murialdi aveva fondato (e poi diretto fino al 1998) una rivista trimestrale: Problemi dellâ??informazione, edita dal Mulino. Era ed è uno strumento di nicchia, alcune centinaia di acquirenti, forse i lettori si possono contare partendo dallâ??unità di misura superiore al migliaio.

Paolo lâ??ha fatta perché credeva che il giornalismo potesse incontrare le scienze sociali e misurarsi sul terreno dellâ??analisi del mutamento del nostro paese. Io sto proseguendo il suo lavoro ed ho qualche ritrosia a parlarne, ma un punto è certo: una rivista, così come i libri, vive se riesce a muovere pensieri, anime, riflessioni dentro lâ??ambiente al quale è destinata. Poi possono avverarsi tanti altri destini, si può avere successo economico o editoriale, si possono creare scuole, o allevare generazioni di studiosi o professionisti. Eppure il nodo rimane lì: quanto pesi, quanto conti in quel grumo indefinito, in quellâ??ambiente dai confini incerti, nel quale si riflette sui margini tra chi racconta e chi costruisce lâ??opinione pubblica: il pensiero civile sui destini di una nazione e della sua società.

La misura del suo successo arriva proprio nel momento nel quale Paolo Murialdi non è più tra noi. Vuole dire che i suoi libri e il suo lavoro rimangono.

 

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