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Articolo 21 - Editoriali
Che fine hanno fatto le «radio libere»?
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di Alberto Gedda*

Si festeggiò a lungo negli «studi» con i cartoni delle uova rivoltati per insonorizzare le pareti di cantine e garages dove prima c'erano i fustini del detersivo a fare da batterie. Come una sbronza collettiva in cento città e paesi: sul piatto del giradischi, inevitabilmente, suonava l'inno La Radio di Eugenio Finardi in una colonna sonora dai mille sapori, dal progressive al liscio, da Guccini a Hendrix.
Il 28 luglio 1976, trent'anni fa, la stagione dei cento fiori, ovvero delle «radioline» spuntate ovunque sull'onda dell'entusiasmo e dei primi business, iniziava ufficialmente con tanto di certificato legale: la sentenza 202 della Corte di Cassazione che sanciva la legittimità delle trasmissioni private, purché in ambito locale.
Seguiranno poi altre battaglie, sentenze, decreti che di fatto «liberalizzeranno» le comunicazioni. Quel mercoledì, lo sentivamo, era una data storica, la partenza di una nuova stagione con il moltiplicarsi di ripetitori e antenne, compagni di scuola e amici, ragazze, che affollavano gli «studi» ricavati un po' ovunque ma dove ognuno aveva, rigorosamente, la sua sigla. Come ci aveva insegnato Radio Monte Carlo, l'unica emittente a rappresentare «l'altra radio possibile» rispetto alla Rai.
«? vero, ci copiavano tutti perché eravamo la sola alternativa e, soprattutto, avevamo mille idee e tanta incoscienza - ci conferma Luisella Berrino, dal 1970 ai microfoni di Rmc con la stessa avvolgente leggerezza - Facevamo i programmi a richiesta con le dediche, proponevamo i dischi del momento e soprattutto ne scoprivamo con il grande Herbert Pagani. C'era un modo totalmente diverso di "fare la radio" inventato da Noel Cutisson nel battezzare Rmc, la radio del sole: Roberto Arnaldi, Awanagana, io? tante voci e tante personalità».
In concorrenza con la Rai? «No, assolutamente. Erano due scelte editoriali diverse: anzi, molti "conduttori" della Rai venivano a fare stages a Rmc. C'era molta allegria e incoscienza: mi stupisco sempre a pensare che siano già passati così tanti anni, quaranta!».
Monte Carlo chiudeva i programmi alle 19 e allora si passava a Radio Luxembourg, entrambi sulle onde medie.
Ma in RadioRai come si reagiva? «All'inizio c'era una diffuso senso di sufficienza verso questi ragazzini che si mettevano davanti a microfoni artigianali - ricorda Ermanno Anfossi, attore, autore, conduttore, funzionario, protagonista della radio di qualità - Riccardo Pazzaglia intuì il fenomeno realizzando il programma "A tutte le radioline in ascolto" mettendo in evidenza il dilettantismo del nuovo. Però a fare la differenza non era tanto il professionismo quanto piuttosto il pubblico».
Cioè? «La gente si era accorta benissimo che qualcosa era cambiato e le radioline avevano conquistato pubblico. Noi eravamo gli annunciatori dalla dizione inappuntabile, "Aperitivo in musica: programma in dischi con allegri motivetti", loro scardinavano con nuove tendenze, revival, dediche. Arbore capì benissimo e sugli "allegri motivetti" ha costruito programmi di grande successo, soprattutto "Alto gradimento" con Gianni Boncompagni. Era iniziata la rincorsa».
Che non è finita. «No, anzi. Ormai è codificata. Io ricordo benissimo quando ebbi la certezza che il monopolio era finito. Ero al bar e una ragazza mi presentò ad un amico come "Anfossi della radio" e lui, perfido, "di quale radio?" Ecco, era finita».
A dire il vero c'erano già stati dei tentativi di libere trasmissioni, tutti falliti o repressi come ad esempio "Radio Sicilia Libera", la radio dei poveri cristi lanciata il 25 e 26 marzo del 1970 da Danilo Dolci per denunciare lo scandalo del Belice. Sequestrata dopo un giorno.
Poi, nel 1975, l'esplosione guidata da Radio Parma e Milano International seguite da decine di altre (105, Popolare, Alice, Blu, Radicale, Nuovainformazione, TorinoAlternativa?) che diventeranno un torrente in piena dopo la sentenza della Cassazione. «Come molti ero un radiodipendente ed ero incuriosito dalle 400 emittenti che c'erano in giro - racconta Sergio Ferrentino che la radio l'ha attraversata davvero, da Popolare a Radio2, Radio3, Radio Svizzera, inventando linguaggi e programmi di successo come "Catersport" - Tempo qualche mese ed ero al lavoro per una radio "di movimento": nel 1977 ero in onda».
Ma le radio erano libere? «Occorre distinguere tra radio a fini di lucro e quelle che poi sono diventate comunitarie.
In ogni caso la libertà è stata relativa: chi veniva condizionato dalla pubblicità, chi dal movimento o dalle forze politiche che gestivano la radio».
E a Popolare? «Le componenti sono sempre state molte e presenti, ma si neutralizzavano a vicenda, quindi esisteva una sostanziale libertà da parte del collettivo dei lavoratori. L'autonomia la radio l'ha ottenuta grazie alle migliaia di ascoltatori che hanno contribuito all'esistenza e alla crescita con sottoscrizioni e abbonamenti».
Ma le "nuove radio" hanno fatto nascere nuove professionalità, una nuova coscienza critica nell'ascolto? «Assolutamente no. Mi sembra che la categoria continui ad improvvisarsi. Non vedo poi nessuna attenzione critica da parte del pubblico, c'è una concentrazione dell'ascolto che esula dal prodotto che si restringe sempre più nell'offerta di nuovi format. Speriamo nella web radio».
L'evoluzione tecnologica sarà anche l'evoluzione dei contenuti? Chissà, intanto da inguaribili radiologi continuiamo a canticchiare: «se la radio è libera, ma libera veramente, ci piace ancor di più perché libera la mente».

*l'Unità - 29 luglio 2006

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