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Articolo 21 - Editoriali
Siamo uomini o caporali?
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di Pino Finocchiaro

Che rompipalle 'sto Fabrizio Gatti. Ogni estate ci rifila un pugno nello stomaco. Mentre i suoi colleghi corrono a infoltire le fila degli invitati speciali tra premi cinematografici o rassegne di tette e culi; mentre c'è chi trancia raffinati giudizi sul lavoro di attori e registi, chi si dedica alla pesca d'altura e al toto poltrone, Fabrizio si traveste per la terza volta da negro-bianco. L'inviato dell'Espresso ci ricorda che anche da noi vive all'incirca un milione di invisibili, nulla di più che servi della gleba, null'altro che schiavi senza identità, senza passaporto, senza porto d'approdo.
Eccolo, sempre lui, guastafeste, tra migliaia di "schienedritte" supergarantite da contratti nazionali e integrativi, Fabrizio molla l'invidiata scrivania dell'Eur e piega la schiena tra i campi pugliesi. Eccolo, il cronista vero, mangia polvere e inghiotte arsura a 42 gradi. Condivide la paura con gli "invisibili" negri-bianchi, negri-neri, negri-biondi - ma porca miseria tutti neri di rabbia nell'anima - ci sveglia dal torpore, dalle camarille pre-congressuali, dalle dotte disquisizioni sull'utilità di un Ordine dei giornalisti, per ricordarci che in Italia non v'è ordine né diritto per uomini e donne come noi ma che abbiamo rimosso dalla nostra coscienza.

Quando narra alla nostra coscienza di quei caporali - un po' bianchi, un po' negri anche loro - che picchiano gli uomini e costringono alla prostituzione le loro donne, ci fa sentire tutti un po' sfruttatori, tutti un po' caporali.
Perché poco più in là dello scaffale del supermercato dove hai comprato l'Espresso con Fabrizio che raccoglie pomodori in ginocchio tra le zolle, ci sono già le scatole di pelati che nel frattempo hanno visto aumentare il loro prezzo di sessanta-cento volte.
Far finta di nulla quando mettiamo in tavola quei pelati non è più possibile. O ti indigni o sei anche tu un caporale.
La storia, le storie di uomini e donne con le braccia e l'anima spezzate, la tragedia di quei poveri corpi bruciati e dispersi tra i campi, non mettono in discussione solo i ritardi nel riformare la mai abbastanza deprecata legge Bossi-Fini ma la nostra responsabilità sociale e professionale.

Quanto tempo e quanto spazio hanno dedicato le tv per raccontare la vicenda dei lavoratori invisibili e benché tali indispensabili per la nostra economia?
Che fine hanno fatto in Rai le inchieste sul caporalato? Dobbiamo accontentarci di quelle degli anni '70 che Rai Tre ha riproposto nelle scorse settimane? Cosa ci hanno insegnato le interviste di Jo Marrazzo o le inchieste del Nip-Rai, il nucleo ideativo produttivo, quando giovani giornalisti come Renato Parascandalo trascorrevano mesi tra le catene di montaggio della Fiat per raccogliere il malessere degli operai pugliesi, campani, calabresi e siciliani che ancora oggi o vanno a lavoro nero o vanno via per emigrare, o accettano di fare i caporali o piegano la schiena.
Ma è solo piegando la schiena come ha fatto quel cronista non scomodo ma autentico rompiballe di Fabrizio Gatti che ci si mette al livello di chi la schiena ce l'ha già spezzata dalla fatica e talvolta dalle percosse e dalla brutalità dei caporali e dei mafiosi che li proteggono.

Le piccole imprese volevano più flessibilità nel lavoro? Può una vera impresa arricchirsi spaccando la schiena agli invisibili? Buttando poi tra i campi, come fertilizzante, i corpi di chi cade stremato e brutalizzato? Può l'autorità morale della Chiesa tollerare tutto questo? Può la politica non considerare tutto questo un'emergenza? Possiamo noi giornalisti non interrogarci sull'urgenza di tenere i riflettori del servizio pubblico accesi e puntati sulle storie narrate da Fabrizio Gatti?
Sul piano personale ognuno di noi può provare a difendersi ricordando che io ho scritto, io ho mandato in onda il primo filmato sui viaggi della speranza nel deserto del Niger, io ho iniziato a scrivere dei mercanti di uomini quando nessuno l'aveva mai fatto prima. Non basta più. Siamo titolari di una responsabilità collettiva, in una parola, sociale.

I compagni di lavoro di Fabrizio Gatti continuano ad ammalarsi e morire sotto le bastonate dei caporali e le violenze dei padroncini ma le tv restano affascinate da altre cose. Dedichiamo le dirette al mancato sbarco dei marò italiani tra gli ombrelloni delle spiagge libanesi - meglio sarebbe stato indirizzarli subito nel porto non distante - ma dimentichiamo che in Italia c'è un'oscura guerra ancora in corso: quella contro le mafie. Sono le mafie che guidano e proteggono scafisti e caporali. Che non è la mafia delle coppole storte.

E' la mafia delle immobiliari, del riciclaggio nelle più moderne attività del terziario, delle connivenze in politica e nei palazzi delle istituzioni. Le risposte inadeguate alle mafie dei caporali, degli scafisti e dei colletti bianchi non lasciano cadaveri solo tra i campi del Foggiano ma anche tra i lindi villini del Bresciano. Allo strapotere di Cosa Nostra & C. non si sfugge mettendo la testa sotto la sabbia.
Fabrizio Gatti aveva una bici per fuggire dal campo di pomodori e così si è salvato la vita. Ma i negri, neri o bianchi che siano, non hanno più né bici né fiato per fuggire. Noi giornalisti dobbiammo essere la loro voce. Dobbiamo dare parole alle loro lacrime. Noi giornalisti dobbiamo chiedere che in Rai si parli in prima serata dei loro drammi e delle loro tragedie. Correndo qualche rischio. E' in questo che sta la differenza tra uomini e caporali.

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