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Articolo 21 - Editoriali
Tante canzoni per dare speranza agli ultimi
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di Claudio Baglioni

Ogni oltraggio è morte. Non sono parole mie. Non ne posseggo di così alte. Le rubo a un grande Gadda, perché credo che la strada che suggeriscono sia quella che dobbiamo trovare il coraggio di percorrere, quando ci avviciniamo ad un tema così doloroso come l'immigrazione clandestina. Un tema di fronte al quale, prima ancora di essere capaci di parole, dobbiamo essere capaci di silenzio. Il silenzio che serve a percepire il battito, appena udibile, di un cuore. Ma non il nostro. Il cuore dell'altro. Finché il radar della nostra coscienza non sarà capace di rilevare quel battito e riconoscergli la stessa dignità che chiediamo venga riconosciuta al nostro, le parole che diciamo non varranno l'aria della quale sono fatte.

Vista dall'aereo, Lampedusa non è che un piccolo neo sulla pelle del mare. Ondeggia indecisa, come un'imbarcazione che non sa se avvicinarsi o allontanarsi dalle coste di un'Europa madre sì, ma talvolta anche matrigna. Non sa se attraversare il "mare nostrum", passare le colonne d'Ercole e tentare la sorte, tra le acque sconfinate e senza riparo dell'Atlantico. E, forse, se decidesse di prendere il largo, non avrebbe tutti i torti. Gli sbarchi sono molto più delle cronache del disagio che portano e di quello che procurano. Più della contabilità dolorosa - e, qualche volta, vergognosa - di ingressi, accoglienza, espulsioni. Più di un tornasole con il quale misurare il valore di questa o quella linea, l'efficacia di questa o quella norma.

Sono nomi, occhi, cuori, carne, ossa. Sono dolore e speranza. L'oltraggio di un passato incapace di garantire un futuro; la speranza disperata di un presente che possa restituire il futuro rubato. Sono l'urlo di Munch; lo strazio del Laocoonte; la vergogna dell'Adamo cacciato dal Paradiso terrestre. Ma, soprattutto, l'immagine più evidente di una democrazia che si scopre inadeguata a governare società sempre più vaste e complesse, nelle quali fedi, culture, storie, tradizioni e linguaggi sembrano incapaci di incontrarsi e capaci solo di scontrarsi, rischiando - ogni volta - di prendere fuoco ed esplodere. Una democrazia che corre il rischio di fare harakiri. Se la maggioranza è fatta da quelli che stanno meglio, tutela i diritti dei più forti. Il divario con i più deboli aumenta sempre più e le parole "a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quel poco che ha" rischiano di assumere un significato apocalittico. Non possiamo fingere di ignorare che torto, ragione, responsabilità, colpa, legalità, diritto, sono parole che assumono un significato completamente diverso se pronunciate nell'inviolabile serenità del nostro salotto o nel buio gelido di una notte d'alto mare, tra anime calpestate e scheletri di uomini che trattengono il fiato nella speranza che il loro viaggio sia il primo e non l'ultimo.

Per riflettere su tutto questo, ho chiesto ad altri uomini di musica di scendere a Lampedusa dal 23 al 25 settembre, per unire le loro note alle mie. Per questo appuntamento ho preso in prestito il saluto della gente dell'isola -"O scià!": "fiato mio", "mio respiro"- perché credo non ci sia niente di più forte e profondo che essere fiato e respiro l'uno per l'altro. La speranza è che questi "fiati" si fondano in un vento capace di sgombrare menti e cuori dalle nubi che li avvolgono e aiutare chi lo deve fare a costruire una prospettiva in grado di garantire un futuro di dignità a quanti vivono a Lampedusa e la dignità di un futuro a quanti a Lampedusa approdano. Le canzoni - è vero - non contengono e non possono dare risposte. Ma la musica è la dimostrazione del fatto che esistono linguaggi e categorie che non conoscono confini, barriere, muri e pregiudiziali. Ed è a questi universali che ci dobbiamo affidare se vogliamo davvero chiederci se questo è un uomo; se vogliamo capire cosa fare per fare in modo che torni ad essere uomo pienamente e, allo stesso tempo, dimostrare a noi stessi e al mondo che vogliamo continuare ad essere chiamati uomini anche noi.

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