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Carcere e CIE, tra morte e silenzi
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di Bruna Iacopino

Carcere e CIE, tra morte e silenzi Il fatto che un detenuto decida di togliersi la vita e lo faccia, magari, impiccandosi, rappresenta a tal punto la routine da non fare quasi più notizia. Eppure, di fronte al silenzio e all’immobilismo della politica, risulta improponibile tacere e far finta di nulla. Come si può non dare conto del suicidio di un ragazzo di 32 anni, avvenuto oggi intorno alle 11.30 all’interno delle docce? Il ragazzo di origine slovene avrebbe utilizzato i lacci delle scarpe per togliersi la vita dentro il carcere bolognese della Dozza. Come appena un giorno prima aveva fatto un uomo di 55 anni nel carcere pugliese di Foggia, condannato a 12 anni di carcere per l’omicidio della madre, pena ridotta per semi-infermità mentale, ha infine deciso di farla finita usando un lenzuolo al quale appendersi. L’agente arrivato tardi non ha potuto fare nulla per salvarlo. Siamo a quota 57, 58 dall’inizio dell’anno? molti, troppi in ogni caso, ignorati dai media, ignorati ancora più colpevolmente dalle istituzioni. A poco dunque servono le dichiarazioni indignate che arrivano dai vari sindacati di polizia penitenziaria, ancor meno gli studi e i rapporti presentati, non ultimo quello firmato da Nessuno tocchi Caino.
Come lascia del resto perplessi la morte, non per suicidio questa volta, di un ragazzo di appena 22 anni ritrovato morto nella sua cella del carcere di Ancona il 22 ottobre di quest’anno. Morte causata da arresto cardio-circolatorio (ma quale morte non lo è?) ipoteticamente per l’ingestione di un mix letale di psicofarmaci e sostanze stupefacenti. Come puntualmente denota l’osservatorio permanente delle morti in carcere questa però sarebbe già la terza morte sospetta nell’ambito dello stesso istituto. In precedenza avevano perso la vita, con modalità molto simili, un ragazzo di 26 e uno di 27 anni. Su queste analogie e sulla possibilità che vi sia un nesso fra le tre, la Procura ha aperto un fascicolo di inchiesta, in attesa che vengano resi noti gli esami tossicologici degli ultimi due. Mentre è stata presentata un’interrogazione parlamentare da parte delle senatrici del centro-sinistra Marina Magistrelli, Silvana Amati e Luciana Sbarbati all’indirizzo del Ministro Alfano.
Ma se le carceri continuano ad essere un fronte ignoto e ignorato per molti aspetti, come giustamente denuncia il segretario della Uil Pa, Eugenio Sarno, un altro universo completamente oscuro e oscurato è quello dei CIE, dove i cosiddetti opsiti sono a tutti gli effetti reclusi, con un aggravante, nessun reato a carico, se non il fatto di essere sprovvisti del permesso di soggiorno. La puntata di ieri della rubrica Radio migrante, su Radio radicale, racconta uno spaccato di questo mondo dando voce a una delle tante recluse del Cie di Ponte Galeria, testimonianza raccolta in seguito alla visita di una delegazione di consiglieri della Regione Lazio tra cui il radicale Rocco Berardo al Centro. “Non ce la faccio più, o esco o mi mandano al mio paese. Ponte Galeria mi ha vinto, ho anche provato a impiccarmi, sei mesi sono davvero tanti, preferivo la galera almeno lì avevo un lavoro, delle atività, ma qui non c’è nulla…” La drammatica testimonianza è di una donna tunisina, in Italia da vent’anni, finita in carcere per un furto e dal carcere a Ponte Galeria. Storia di ordinaria amministrazione dentro i Cie, dove finiscono ex detenuti in attesa di espulsione, ma anche gente comune che il carcere non lo ha mai visto e si trova improvvisamente privato della libertà, senza motivo.
Una situazione esplosiva al pari di quella carcerarria e che da tempo mostra segni di insofferenza: non ultima la rivolta scoppiata appena qualche giorno fa al CIE di Trapani, mentre in precedenza c'era stato Elmas e prima ancora lo stesso Ponte Galeria e Torino...

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