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Teheran come il Cairo. L'imbroglio svelato
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di Guido Moltedo*

Teheran come il Cairo. L'imbroglio svelato

Teheran come Il Cairo. Ma l’equazione non era rovesciata? Già, via via che nei giorni scorsi montava la marea della rivoluzione egiziana, lo sguardo di molti analisti occidentali era rivolto al passato, alla Teheran della fine dello scià, oltre trent’anni fa. Un passato che, nel corso del tempo, ha prodotto quella mostruosità politica e morale che è il regime di Ahmadinejad.

Dunque, Il Cairo come Teheran, era l’allarme sventolato da diversi osservatori, che paventavano l’arrivo del radicalismo islamico come esito della cacciata del raìs. E certo, era nell’interesse di Ahmadinejad accreditare e rilanciare quest’accostamento. Con l’intento evidente di rafforzare il ruolo – graziosamente regalatogli appunto dall’Occidente – di grande player regionale e di faro ideologico del mondo islamico (anche di quello sunnita, visto che pure la Fratellanza islamica è stata assurdamente messa in relazione con il regime sciita!).

Naturalmente, le cose stanno nel modo opposto. Il despota di Teheran – al di là della propaganda – temeva e teme il contagio egiziano come una minaccia mortale, e tutto avrebbe voluto, tranne che la caduta di Mubarak. Per decenni, fino a ieri, l’interminabile status quo è convenuto a tutti i leader della regione, proprio a tutti, anche a quelli che, nel corso degli anni, hanno cercato di lucrare di tanto in tanto posizioni di vantaggio, facendo la voce grossa con Israele, e usando con spregiudicatezza, a fini propagandistici, la questione palestinese, anch’essa solo per cristallizzare lo status quo. Oggi anche un personaggio come Gheddafi, che ha sempre coltivato un suo profilo a parte, fuori dal coro dei despoti filo-occidentali, teme per se stesso e per la tenuta del suo regime. E così il presidente iraniano.

Ma la rivolta mediorientale non sta semplicemente investendo, con la stessa furia, tutti gli assetti consolidati – repubbliche laiche, monarchie, regimi religiosi. Sta anche spazzando via tutto il repertorio paradigmatico con cui è stata interpretata in Occidente la realtà di questi paesi, perennemente in bilico – a dare retta agli analisti – tra autoritarismo politico, più o meno paternalista, e dominio inflessibile dell’estremismo religioso anti-occidentale e anti-israeliano. Sono schemi talmente comodi, quanto lontani dalla realtà, e talmente duri a morire che solo domenica scorsa Sergio Romano – in prima pagina, sul Corriere della Sera – definiva golpe militare l’esito della rivoluzione egiziana ed esprimeva stupore per il fatto che tutti i governi democratici l’avessero accolto «con soddisfazione ». Certo, il fatto di ridurre un immenso moto di popolo – che, peraltro, è parte di un vasto e tutt’altro che esaurito movimento regionale – a un “già visto” con i militari che mettono in riga dei mocciosi rivoluzionari, potrebbe essere semplicemente liquidato ricordando che sarebbe la seconda rivoluzione epocale che l’ambasciatore Romano banalizza con i suoi toni di cinica sufficienza. Da ambasciatore a Mosca, Sergio Romano non capì la portata e le conseguenze dell’avvento alla guida del Pcus di Gorbaciov, tanto da venire richiamato a Roma dall’allora presidente del consiglio Ciriaco De Mita, giustamente fuori dai gangheri per essere stato fuorviato su quello che si sarebbe rivelato l’ultimo leader dell’Unione Sovietica, l’uomo della fine della guerra fredda.

Ricordare l’era della caduta del Muro, d’altra parte, è stato esercizio frequente dacché è partita la rivolta araba. L’analogia ha un senso non tanto per gli aspetti esteriori – grandi masse pacifiche che nelle piazze abbattono regimi fino al giorno prima incrollabili – quanto perché, allora come ora, siamo costretti ad analizzare quanto accade e quanto accadrà senza potere attingere possibile spiegazioni, possibili risposte da nessun libro di storia o di politica, su nessun textbook. Chi avrebbe mai detto che tutti i gruppi dirigenti delle varie rivoluzioni di velluto sarebbero stati soppiantati nel giro di pochi mesi, e che altri erano i dirigenti che avrebbero condotto la definitiva fuoruscita dal socialismo? Nessuno sapeva che cosa sarebbe successo davvero nell’est europeo. Poi, come abbiamo visto, dopo un decennio estremamente difficile e duro, le cose sono andate in carreggiata e nella giusta direzione.

Così oggi, non serve proprio a niente “leggere”, la tumultuosa fase nordafricana e mediorientale con lenti “iraniane” o con la chiave proposta dall’ambasciatore Romano.

Come scrive su Le Monde Olivier Roy, «l’opinione europea interpreta le sollevazioni popolari in Africa del Nord e in Egitto attraverso una griglia vecchia di oltre trent’anni: la rivoluzione islamica dell’Iran», ma «se si osserva coloro che hanno lanciato il movimento, è evidente che si tratta di una generazione post-islamista», «una generazioni pluralista, perché senza dubbio più individualista», una generazione più istruita, più informata, con meno figli, con una pratica religiosa privata, una generazione che rivendica e pretende rispetto, che oggi può chiedere autonomamente la democrazia e i suoi diritti, senza che suoni come una concessione a un’imposizione occidentale o, peggio, al diktat di un Bush esportatore di democrazia.

Già, ma tutto questo non significa limitarsi a interpretare correttamente quanto accade nelle capitali islamiche e, via via, nelle capitali di molti paesi del Terzo mondo.

Come la caduta del Muro che obbligò, non solo l’ex-impero sovietico, ma anche l’Occidente a ridefinirsi – ruolo della Nato, allargamento della Ue, politiche migratorie – la rivoluzione in corso in Nord Africa e in Medio Oriente, e presto anche altrove, costringe tutti a rivedere l’intera rete delle relazioni internazionali. Sarebbe a dir poco schizofrenico elogiare il blogger egiziano che pacificamente e civilmente dà la spallata a un regime tirannico, senza incendiare una bandiera israeliana o americana, e poi impedirgli di viaggiare liberamente nei nostri paesi, come facciamo noi versole loro nazioni. Se salta lo status quo in quei paesi, è un’esplosione di libertà che ci chiama in causa. L’ultima cosa che l’Occidente può fare, è cercare di salvaguardare la propria libertà negandola nei fatti agli altri, dopo averla incoraggiata a parole.

*da Il mondo di Annibale


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