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Mahsa e Masoud: giornalisti e prigionieri politici in Iran
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di Marco Curatolo

Mahsa e Masoud: giornalisti e prigionieri politici in Iran

Riguardo la foto di Mahsa Amrabadi ora che la notizia del suo nuovo arresto è stata confermata. Speravamo in un falso allarme, invece no. La riguardo e ripenso alla prima volta che con Mahsa ci scrivemmo, più di un anno fa.                          Era tornata in libertà da qualche mese, dopo averne trascorsi due nel carcere di Evin, dove era invece rimasto suo marito Masoud Bastani. Giornalista lei, giornalista lui. Mahsa mi chiese, attribuendomi un'importanza che so di non avere, di mobilitare i colleghi italiani, di sollecitare la loro solidarietà nei confronti dei reporter e blogger iraniani imprigionati dal regime. So di averla delusa. I giornalisti italiani hanno continuato ad avere le loro gatte da pelare: tempo e modo per solidarizzare con i loro omologhi iraniani ne hanno trovato poco. Eppure la Repubblica Islamica dell’Iran continua ad essere la più grande prigione al mondo per giornalisti. E in quella prigione Mahsa, adesso, è ritornata.
Da 21 mesi (tanto è passato dalle elezioni del giugno 2009) le fotografie dei prigionieri politici iraniani e quelle dei loro cari sfilano sul mio  monitor ogni giorno. Spesso sono immagini private, lasciate filtrare a stento dal pudore e dalla riservatezza. Alcune raccontano storie di felicità perduta, di spensieratezza lontana. Altre parlano del dolore che segue gli arresti: figli che spengono candeline senza le madri al loro fianco; mogli che accompagnano i mariti fin sulla soglia di Evin e li salutano con un sorriso perché sanno che quello sarà, per molto tempo, il loro ultimo ricordo del mondo libero; amori sospesi, spose sole, madri in attesa (riabbracciare un figlio fuori dal carcere dev’essere – credo - come partorirlo una seconda volta). Ma questa foto di Mahsa mi è più cara di altre. Avvinghiata al ritratto del suo Masoud come se voglia, al tempo stesso, proteggerlo e ritrovarne il contatto, il calore del corpo lontano. Masoud sconta sei anni di carcere, una condanna inflittagli al termine di un processo-farsa al quale l’avvocato difensore non ha potuto prendere parte.
Nel gennaio del 2010 Mahsa mi inviò un messaggio pieno di angoscia: Masoud era stato trasferito dal carcere di Evin (Teheran) a quello di Rajai Shahr (Karaj). Una prigione ancora più malfamata dell’altra, e oltretutto lontana due ore di viaggio da Teheran. “Lo hanno messo tra gli assassini e i trafficanti di droga”, mi scrisse. Da quei giorni in poi la vita di Mahsa è stata scandita dai viaggi settimanali a Karaj per trascorrere venti minuti accanto al marito. Anticamere, lunghe attese, talvolta viaggi a vuoto quando le autorità carcerarie, arbitrariamente, negavano a Masoud il diritto di ricevere visite. In una delle ultime occasioni in cui si sono visti, Masoud ha scrutato Mahsa oltre il vetro che li separava. “Tesoro mio, sei invecchiata,”, le ha detto. Perché la solitudine, l’angoscia, la fatica dei viaggi, la battaglia per chiedere giustizia logorano lo spirito e portano via la giovinezza. E inoltre Mahsa non ha mai smesso di essere una cittadina iraniana e una giornalista. Ha continuato a scrivere e a lottare non solo per riavere indietro il suo uomo, ma anche per riprendersi il suo paese, la sua libertà, i suoi diritti.
A ottobre Mahsa era stata condannata dal tribunale rivoluzionario a un anno di prigione per propaganda contro il sistema, ma era stata lasciata in libera. Quella sentenza avrebbe potuto indurla a mantenere un profilo basso, ad evitare rischi ulteriori. Non è stato così. Il 1° marzo è stata prelevata con altre donne dalle forze di sicurezza, mentre manifestava contro l’arresto dei due leader dell’opposizione Mousavi e Karoubi. Ora si trova di nuovo a Evin.
A Rajai Shahr, in questo periodo, ai prigionieri politici (molti dei quali sono in sciopero della fame) è impedito di fare e ricevere telefonate. Masoud, la notizia, non l’ha saputa ancora.


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