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Iran: in prigione i due leader dell’opposizione. Ma il movimento verde torna in piazza
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di Marco Curatolo

Iran: in prigione i due leader dell’opposizione. Ma il movimento verde torna in piazza

Era dal 12 giugno 2009, da quando una truffa elettorale consegnò a Mahmoud Ahmadinejad il suo secondo mandato di presidente dell’Iran, che la minaccia dell’arresto incombeva sui due candidati riformisti alle elezioni, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karoubi. Nessuno è stato perciò colto di sorpresa quando, nella serata del 27 febbraio, sul sito Kalemeh, considerato il più vicino a Mousavi, è comparsa la notizia che entrambi i leader dell’opposizione, con le  rispettive mogli Zahra Rahnavard e Fatemeh Karoubi, sono stati trasferiti in data ignota nella prigione di Heshmatiyeh, nella parte orientale della capitale Teheran.
Dunque anche Mousavi e Karoubi, così come le loro consorti, entrano a tutti gli effetti a far parte della lista di prigionieri politici della Repubblica Islamica - una lista difficile da compilare, ma della quale in questo momento fanno parte con certezza più di 600 nomi. Si tratta, come è facile capire, di una svolta importante. Eppure la gradualità con cui gli strateghi del regime hanno saputo arrivarci, cercando di attenuarne l’impatto sulla protesta popolare, fa sì che poco cambi, per ora, negli scenari iraniani.
Nel corso dei venti mesi che separano dal giugno 2009, già molto era stato fatto dal regime per isolare i due leader dell’opposizione, per intimidirli, per ostacolarne i movimenti e le comunicazioni: minacce, aggressioni verbali e fisiche contro gli stessi Mousavi e Karoubi e contro i loro parenti prossimi, arresti di loro stretti collaboratori e di familiari. Di fatto è dall’estate del 2009 che ai due leader veniva impedito di comparire in pubblico.
La situazione è precipitata quando Mousavi e Karoubi hanno chiesto al regime il permesso per svolgere una pacifica manifestazione di solidarietà con il popolo egiziano e tunisino il 14 febbraio (il 25 Bahman persiano). L’intento dell’iniziativa era chiaro: dal momento che il regime e la stessa Guida Suprema Khamenei avevano espresso simpatie per le proteste popolari nel mondo arabo, accampando anzi la pretesa che la Rivoluzione islamica avvenuta in Iran nel 1979 ne rappresentasse il modello e il punto di riferimento (pretesa respinta al mittente persino dai Fratelli Musulmani dell’Egitto), il Movimento Verde intendeva sfruttare questa occasione per tornare a scendere in strada come non avveniva ormai da più di un anno. Ma, com’è ovvio, la solidarietà dei Verdi nei confronti dei tunisini e degli egiziani aveva un significato opposto a quello inteso dal regime: “Moubarak, Ben Ali nobate Seyed Ali”, cantano gli iraniani in questi giorni: “Dopo Moubarak e Ben Ali, adesso è il turno di Seyed Ali (Khamenei)”.
Il permesso per le manifestazioni del 25 Bahman non è arrivato, cosa che non ha impedito a centinaia di migliaia di iraniani di scendere in piazza a Teheran e nelle principali città del paese. Sennonché, nel frattempo, proprio alla vigilia del 14 febbraio, Mousavi e Karoubi sono stati posti di fatto agli arresti domiciliari. Davanti alla casa del primo sono stati costruiti due livelli di barriere metalliche, un grosso camion ha occupato la strada rendendola inaccessibile, le linee telefoniche sono state tagliate, le guardie del corpo private sono state congedate e sostituite da non meglio specificate “forze dell’ordine”. Non diversamente è andata a Karoubi.
Poi, ma non si sa con certezza quando, dagli arresti domiciliari Mousavi e Karoubi, con le mogli, sono stati trasferiti in prigione. Il tutto nei modi consueti alla Repubblica Islamica dell’Iran: in segreto, senza comunicazioni ufficiali, senza un mandato, facendo in modo che i prigionieri sparissero nel nulla senza lasciare traccia. Il che rende l’espressione “sequestro di persona” più adatta della parola “arresto” a definire il loro status.
Alla scomparsa dei due leader, che dura ormai da oltre due settimane, il Movimento Verde ha reagito con prontezza e maturità. Senza di loro ha rapidamente convocato altre manifestazioni, il 20 febbraio, per commemorare i due studenti uccisi dalle forze dell’ordine il 14 febbraio (Sanee Jaleh e Mohammad Mokhtari). E sempre senza di loro ha organizzato una nuova giornata di protesta per il 1° marzo, durante la quale decine di migliaia di iraniani sono scesi di nuovo in strada – ed era la terza volta in due settimane – inneggiando a Mousavi e Karoubi.
È difficile dire ora se l’arresto dei due leader servirà a colmare la distanza che, tra loro e la “pancia” del movimento, hanno costruito 20 mesi di forzata immobilità e di scelte moderate e ritenute troppo conservative: i continui richiami di Mousavi ai tempi dell’Imam Khomeini spesso non sono stati intesi dalla gente, come sarebbe stato giusto, quale un tentativo di utilizzare il linguaggio del regime per metterlo in contraddizione con se stesso, ma piuttosto come una dichiarazione di appartenenza alla tradizione della Repubblica Islamica, alla quale peraltro Mousavi, per storia personale e politica, è effettivamente legato. La cautela che lo stesso Mousavi ha dimostrato quando invece di esortare la gente a protestare l’ha invitata alla calma e a starsene in casa, non è stata interpretata da molti come la legittima preoccupazione di un leader che vuole evitare un bagno di sangue, ma (ingenerosamente) come il calcolo politico di un uomo troppo legato al vecchio per volersi aprire con coraggio al nuovo.
Ora che condivide la sorte delle centinaia di prigionieri politici che affollano le carceri del regime, Mir Hossein Mousavi ricongiunge il suo destino a quello della sua gente, la stessa che, il 12 luglio del 2009 lo aveva votato presidente dell’Iran. E se il suo arresto (e quello di Karoubi) poco o nulla cambia nella dinamica della vita politica iraniana ufficiale, dalla quale di fatto era già estromesso, molto può invece cambiare per il futuro del Movimento Verde. Molto potrà dipendere dalla capacità del movimento stesso di prendere con forza le difese dei suoi leader; dalla sua capacità o meno di convincere gli iraniani a restare accanto all’uomo che meno di due anni fa avevano scelto come presidente.
Difendere Mousavi, per gli iraniani, può non vuol dire difendere il migliore dei leader possibili; ma vuol dire senz’altro ribadire con forza il rispetto dovuto alla volontà del popolo e rinvigorire le ragioni che avevano spinto milioni di iraniani, nel giugno 2009, a scendere in piazza contro le elezioni truccate e contro il regime.
Vuol dire non dimenticare che, senza brogli, Mir Hossein Mousavi sarebbe il presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, invece che un prigioniero politico.

 


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