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Erdogan: non c’è stabilità senza riforme
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di Lorenzo Trombetta

Erdogan: non c’è stabilità senza riforme La Turchia è interessata alla stabilità della Siria così come lo sono l’Iran, l’Arabia Saudita e Israele. A differenza di questi tre Paesi, il gigante dell’Anatolia, che con il suo vicino arabo condivide 822 km di frontiera, ha però in queste settimane più volte e pubblicamente invitato il presidente siriano Bashar al-Assad a intraprendere “adesso, e non dopo” un vero cammino di riforme politiche. Dall’inizio delle proteste popolari anti-regime che da metà marzo stanno scuotendo la Siria per la prima volta da decenni, il premier turco Recep Tayyip Erdogan si è intrattenuto al telefono con Assad per ben due volte. Ieri, ha addirittura inviato a Damasco il suo ministro degli esteri Ahmet Davutoglu per una visita “a sorpresa”.

Nel comunicato dell’agenzia ufficiale Sana si legge il cuore del messaggio turco alla Siria: “la Turchia ha ribadito la sua disponibilità a fornire tutto l’aiuto necessario e la sua esperienza per velocizzare queste riforme”. Il 29 marzo scorso, interpellato dal quotidiano turco Hurriyet sulla “crisi siriana”, Ersat Hurmuzlu, consigliere del presidente Abdullah Gul, aveva affermato: “Attendere che le proteste finiscano per avviare le riforme è un approccio sbagliato. Le riforme necessarie vanno fatte ora, non dopo. E i leader devono mostrare coraggio”.

La Turchia, che già nella questione tunisina, egiziana e yemenita ha invitato esplicitamente i rispettivi capi di Stato ad “ascoltare le richieste del popolo”, in Siria è assai più coinvolta. E non solo come emergente partner economico-commerciale, le cui merci stanno penetrando sempre più il mercato siriano. Ma anche come influente attore politico regionale, che a Damasco potrebbe servire come solida sponda amica per bilanciare la sua tradizionale dipendenza strategica dall’alleato iraniano.

“La stabilità del sistema è importante per noi quanto lo sono le richieste del popolo siriano”, aveva detto Hurmuzlu, consigliere di Gul. E’ qui la differenza sostanziale dell’approccio turco da quello saudita, iraniano o israeliano, tutti attori estremamente preoccupati per un’eventuale destabilizzazione dello statu quo regionale a partire dalla Siria. In base ai propri interessi nazionali e regionali, Riyad, Teheran e Tel Aviv appoggiano, indirettamente o direttamente, il regime di Damasco così come la scelta, adottata finora, di reprimpere la mobilitazione e ignorare di fatto le principali richieste dei manifestanti.

Nell’ottica del governo di Ankara, che spera di ampliare la propria influenza positiva commerciale e politica e che da mesi promuove una politica regionale basata sulla “risoluzione dei problemi” piuttosto che sulla loro radicalizzazione, la stabilità del sistema siriano risiede anche nella soddisfazione dei siriani stessi. E se è vero che dall’inizio delle proteste a Damasco e nelle altre città del paese si registra un calo significativo degli investimenti esteri e degli acquisti dei beni al dettaglio, la posta in gioco per la Turchia va ben oltre la possibilità di vendere i propri prodotti agli acquirenti siriani.

Su tutto emerge la delicata questione curda: la comunità non araba vive in maggioranza nelle regioni settentrionali e nord-orientali al confine proprio con la Turchia. Oltre 100.000 di loro da 49 anni sono privati del diritto di cittadinanza. Anche per questo, per la prima volta dall’inizio delle proteste, i curdi di Siria della regione di Qamishli, ricca di risorse energetiche, si erano uniti venerdì scorso alla mobilitazione anti-regime. La loro era stata una marcia pacifica e i loro slogan invocavano “libertà” e “dignità”, non ancora “la caduta del regime”. Un’eventuale nuova sollevazione dei curdi siriani potrebbe però avere serie ripercussioni anche sulla “sicurezza” del vicino turco. Ecco, anche, perché Ankara mette fretta a Damasco. “In Turchia abbiamo commesso errori ma poi abbiamo fatto riforme. Prima di cambiare le leggi, abbiamo cambiato visione”, aveva affermato Hurmuzlu, consigliere del presidente turco



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