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Articolo 21 - Editoriali
Pensioni, la questione non è l’età
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di Raul Wittemberg

da L'Unità

Non è l’età. Non è l’aumento dell’età per il pensionamento anticipato, la pietra dello scandalo nell’intervento del Centro Destra sul sistema previdenziale. La pietra dello scandalo sta nello scardinamento di uno dei pilastri del sistema contributivo, la flessibilità del pensionamento. Sta nella condanna inflitta alle giovani generazioni gettate nell’incertezza del loro futuro previdenziale, date in pasto all’avidità dell’intermediazione finanziaria, la stessa che ha venduto bond argentini a centinaia di migliaia di ignari piccoli risparmiatori. Sta nelle polizze vita che ricevono le stesse agevolazioni di istituzioni come i Fondi integrativi negoziali, per favorire le compagnie come la Mediolanum del presidente del Consiglio (utile netto, +94% nel primo trimestre 2004, alla vigilia della riforma). L’opposizione rischia di usare un’arma spuntata se insiste su questo elemento dell’età di pensionamento per attaccare l’avversario. La ragione è semplice. Negli ultimi quindici anni l’età media del pensionamento in Italia è salita di cinque-sei anni (e non sono pochi) arrivando quasi ai 60 anni della media europea. Precisamente, siamo a 59,4 anni contro i 60,5 della Ue. Ebbene, questo cambiamento è legato ai governi di Centro Sinistra, con il sostanziale consenso dei sindacati. Del resto nel sistema retributivo sottostante il trattamento di anzianità, una certa quota dell’importo della pensione viene dal contributo pubblico (è pagata dalle nostre tasse), il che mette in relazione la legittima esigenza del singolo a ritirarsi prima della vecchiaia dopo tanti anni di lavoro, con le mutevoli condizioni economiche e sociali del paese. Intorno al 1995 il professor Dino Piero Giarda aveva calcolato che la pensione di anzianità di un operaio metalmeccanico, se costruita sui contributi versati e rivalutati a tassi storici, sarebbe stata (citiamo a memoria) del 30-40% inferiore a quella erogata.


Se ci guardiamo attorno osserviamo che in metà popolazione italiana ci sono fior di ultrasessantenni che svolgono un ottimo lavoro, garantito da una lunga preziosissima esperienza. E nell’altra metà ci sono cinquantenni che dopo 35 anni di lavoro iniziato con i calzoni corti, non ce la fanno più: non è una popolazione in crescita, beni e servizi si producono sempre meno con la forza fisica. Però ad un manovale dopo 35 anni di impalcature sotto il sole cocente o in pieno gelo invernale non puoi chiedergli di starci ancora, e così all’operaio delle fonderie, al conducente del bus nel traffico impazzito delle città eccetera. E infatti per questi lavoratori c’è una legge che garantisce gli addetti ad un lungo elenco di mansioni usuranti, che probabilmente dovrà essere ulteriormente esteso. Nella prima metà di popolazione da noi citata non ci sono soltanto professori e giornalisti, medici e avvocati. C’è pure l’usciere di una grande azienda orgoglioso della fiducia di cui gode, e se ne fa vanto con i figli e con gli amici. C’è una fascia media dell’impiego pubblico e privato in cui il caporeparto, il capufficio e il suo sottoposto s’impegnano nella realizzazione degli obbiettivi assegnati, attraverso la quale affermano il proprio ruolo nella comunità in cui vivono. Quanti ex dipendenti in pensione tornano con nostalgia nel vecchio posto di lavoro a salutare i compagni superstiti. La depressione da pensionamento è un dato accertato. E allora, dov’è la ferita sociale nel chiedere a questi lavoratori di lavorare tre anni in più?
L’operazione di Tremonti sulle pensioni di anzianità è sbagliata soprattutto perché è stata compiuta senza la indispensabile condivisione degli interessati rappresentati dai loro sindacati. I quali sono ben consapevoli che è indifendibile il lavoratore giovane e sano, deciso a mettersi a carico dell’Inps solo perché si è stufato o non va d’accordo col direttore. E i sindacati per una giusta causa sono disposti a convincere i loro iscritti a modificare le loro aspettative, come hanno fatto nel 1995. Il problema è che non è una giusta causa l’esenzione totale dalla tassa di successione, non lo è il regalo fiscale ai contribuenti più ricchi. Se questa è la causa, e lo è, appare ragionevole opporsi a quella che in fondo è l’accelerazione della riforma Dini anticipando di fatto al 2008 la fine delle pensioni di anzianità, rispetto alle scadenze concordate con le organizzazioni sidacali. Le quali non possono chiedere ai loro iscritti che guadagnano sui 1.500 euro al mese di rinunciare a tre anni di pensione, per far pagare meno tasse a chi di euro ne guadagna 10.000 e più.
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