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Conflitto d'interessi anche nel decreto Omnibus
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di Vincenzo Vita

Conflitto d'interessi anche nel decreto Omnibus Il "decreto omnibus" è all'esame dell'aula di Palazzo Madama.  Il testo contiene norme che vanno dalla pur giusta soppressione della tassa di un euro sul biglietto del cinema (introdotta dal milleproroghe) alle misure di tutela per far fronte al degrado e alla mala gestione governativa degli scavi di Pompei, fino alle norme sulle televisioni.
Seppur eliminato l'aumento di un euro sul biglietto del cinema, raggiungere in auto la sala cinematografica avrà un costo maggiore a causa dell'aumento, previsto dal decreto,  del prezzo della benzina per finanziare il Fus. In realtà, le risorse per lo spettacolo risultano ancora ben lontane dai livelli del 2007. Per tale motivo numerosi sono stati gli emendamenti delle opposizioni per aumentare la quota di risorse  destinate al Fus, trovando la copertura finanziaria sulle auto blu, evitando in tal modo di aggravare la spesa per i contribuenti.
Ma come ben sappiamo la cultura non è proprio ai primi posti nelle azioni del governo (c'è ben "altro"): tutto il mondo ha visto cadere in pezzi la casa dei gladiatori pompeiana e soltanto oggi si parla di un programma straordinario e urgente di interventi da realizzare nell’area archeologica di Pompei. Tuttavia, ci si chieda, per quale motivo vengano utilizzati termini quali straordinarietà e urgenza, quando più volte avevamo esortato l'ex ministro Bondi ad aumentare le risorse destinate alla tutela del preziosissimo patrimonio artistico italiano.
Dall'arte si passa ai media che, come proferì McLuhan, tutto comprendono: il decreto prevede una norma che proroga il divieto di incroci tra il settore della stampa e quello della televisione e introduce una grave sperequazione, basandosi su meccanismi di conta delle reti e delle testate assolutamente non credibili.
Le tv locali sono costrette a lasciare una porzione di spettro radio mentre per le nazionali la posizione rimane inalterata, con ciò ledendo i principi di uguaglianza e alterando sostanzialmente le condizioni di pluralismo cui pure il digitale avrebbe dovuto tendere.
In particolare, si introduce la previsione di una graduatoria, non fatta invece per le nazionali, per stabilire quali di esse abbiano dignità di sopravvivenza, collegandosi a parametri che sono tutti economico-dimensionali e annientando il sistema delle televisioni non profit in Italia e delle emittenti meno grandi.
La traduzione materiale di questa disposizione, inoltre, cancella la possibilità di realizzare delle syndication forti ed affida all'Agcom il complicato compito di regolare la cessione verso gli altri editori locali esclusi dalle graduatorie di una parte della capacità trasmissiva (onere posto a carico solo delle emittenti locali e non delle frequenze utilizzate dalle emittenti nazionali).
Il meccanismo previsto dal decreto, in definitiva, è non solo ingiusto, ma si presenta di complicata attuazione anche in relazione ai tempi previsti nella legge di stabilità per l'effettuazione della gara sul dividendo esterno e alla certezza delle entrate che la stessa legge ha inteso perseguire. L'emittenza locale è stata privata di alcune delle frequenze necessarie per l'ingresso nell'era digitale terrestre che rimane appannaggio delle tv nazionali. Il Governo dovrebbe riflettere sull'opportunità di mantenere l'articolo 4, perché le frequenze andrebbero sottratte solo ai grandi operatori nazionali e non alle emittenti locali e comunque perché è prevedibile che la gara per l'assegnazione delle frequenze non riuscirà a concludersi nei termini previsti. Le graduatorie risultano insidiose in assenza di una regolamentazione precisa, tant'è che l'emittenza locale sta invocando una revisione dei criteri fissati dal decreto.
Nessuna riforma bensì una evidente contro riforma. Si tratta del vero e proprio colpo di mano, anche dato nel "latinorum" del testo sugli incroci stampa-televisione. Accade che il divieto (si fa per dire; le norme antitrust sono molto aggirate - come sappiamo - in Italia) non riguarda più seccamente, come era, chi ha più di una rete televisiva terrestre, ma improvvisamente chi ha più dell'8 per cento di quella strana cosa che chiamiamo SIC (fu chiamato così dall'allora ministro Gasparri), ossia il Sistema Integrato delle Comunicazioni. Per quale motivo l'8 per cento e non il 10 o il 7 o l'11 per cento, o più del 40 per cento delle comunicazioni elettroniche? C'è una risposta guardando i dati: entrano in questa presunta barriera  gruppi che danno qualche fastidio al "partito azienda", che ha molti legami - com'è noto - con la Presidenza del Consiglio, cioè il gruppo Sky, che è oltre l'8 per cento; Telecom, oltre il 40 per cento. E' legittimo il sospetto che la norma sia confezionata su misura per danneggiare i principali competitori di Mediaset. Infatti, tenuto conto che la stessa Autorità per le garanzie nelle comunicazioni recentemente non è riuscita a stabilire l'ammontare esatto della pubblicità, che delle diverse voci del nebuloso sistema integrato delle comunicazioni è quella di più certo calcolo: è impensabile utilizzare il SIC come denominatore di riferimento in una normativa di settore che ambisca ad essere rigorosa.
Naturalmente, i dati che oggi emergono da numerosi organi di stampa su ciò che avviene nella compagine societaria del quotidiano «Il Corriere della Sera» fanno pensare che quel limite dell'8 per cento sul SIC, essendo così labile, non impedirebbe da sé un eventuale interesse di Fininvest-Mediaset per l'entrata nella compagine del quotidiano «Il Corriere della Sera», una vecchia ambizione del Presidente del Consiglio. È evidente che chi ha più di una rete televisiva terrestre non può acquisire quotidiani perché la situazione italiana, già così accidentata dal punto di vista delle concentrazioni radiotelevisive ed editoriali, registrerebbe altrimenti un ulteriore passo indietro o in avanti - non so come si voglia giudicare a seconda dei punti di vista - verso un regime mediatico a reti e giornali unificati.


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