
di redazione
“La borsa del colonnello” – primo romanzo di Ottavio Olita, giornalista Rai, uno dei soci fondatori di Articolo 21, già autore di saggi su temi dell’ambiente, dell’arte, dell’amministrazione della giustizia – è un noir ambientato a Cagliari, città solare e mediterranea, della quale vengono svelati alcuni inquietanti lati oscuri.
Ispirato ad una vicenda realmente accaduta, il racconto parte dal misterioso delitto del quale rimane vittima un ufficiale della Guardia di Finanza, trasferito a Cagliari da Bergamo perché nella città lombarda era rimasto coinvolto in una vicenda di corruzione e concussione per la quale era finito in carcere e poi condannato, dopo il patteggiamento della pena.
Una svolta alle indagini viene data da una serie di intercettazioni telefoniche disposte dagli inquirenti; la vedova dell’ufficiale comincia a collaborare e dichiara di aver ritirato dalla caserma delle Fiamme Gialle di Cagliari, su indicazione del marito mentre era ancora detenuto nel carcere militare di Peschiera del Garda, un borsone da moto contenente una consistente somma di denaro – tra i 500 milioni e il miliardo di lire – poi consegnata ad un tipografo amico di famiglia. Il tipografo negherà sempre di aver ricevuto denaro e parlerà di documenti. Accusato di omicidio volontario, il tipografo viene condannato all’ergastolo in primo grado e in appello con sentenza confermata in Cassazione. L’avvocato difensore chiede a quel punto l’aiuto di un vecchio cronista e di un ufficiale dei carabinieri per cercare una soluzione alternativa a quella così nettamente indicata dei giudici. La conclusione del romanzo, dalla scrittura avvincente, e pieno di colpi di scena, è sorprendente e imprevedibile.
Edizioni Cuec, 12euro
Anticipiamo il primo capitolo:
Il promontorio della Sella del Diavolo con le sue forme da grande balena, si spingeva a solcare il mare calmissimo che caratterizzava quella mattina il Golfo degli Angeli: contrapposizione di nomi, Angeli e Diavolo, proprio come quella tra l’acqua turchina e la terra. Di fronte a quello spettacolo, mentre alle sue spalle pian piano aumentava la luce, Gustavo indirizzò un saluto affettuoso alla sua amata città, prima di rivolgersi al suo cane. “Dick! Scova conigli, fai alzare pernici, fammi catturare tante prede, che devo fare bella figura. E comunque, divertiti molto anche tu!”. Una carezza sulla testa, una sul muso, poi Gustavo fece saltar giù dall’auto, attraverso il portellone posteriore, il suo splendido Setter Pointer di 6 anni, che stava addestrando stagione dopo stagione. Ammirò divertito il felice scodinzolare e il frenetico annusare fra le stoppie, il suo allontanarsi e ritornare, come se assaporasse in modo particolare, così come faceva il suo padrone, il sorgere del sole e l’aria frizzantina di quella splendida domenica di settembre, prima giornata di caccia. Gustavo respirò a pieni polmoni, per immergersi completamente in quell’atmosfera che gli dava la straordinaria sensazione di riuscire a liberarsi completamente delle scorie dello stress quotidiano accumulate con la routine, il lavoro, il traffico. E la sua città, Cagliari, si intravedeva sullo sfondo dello splendido panorama che si ammirava da quel pianoro. Dick lo raggiunse e gli si accucciò accanto, mentre egli si assicurava la cartucciera intorno ai fianchi. Poi prese il fucile, un vecchio calibro 12, se lo mise in spalla, calcò bene il berretto in testa, chiuse l’auto con il telecomando e si avviò. Dick, come si mosse il padrone, si sentì libero di cominciare le sue scorribande e partì. Gustavo aveva lasciato l’auto su una piazzola non distante dalla strada asfaltata che, diramandosi dalla statale 125, attraversava quelle colline che appartenevano ai comuni di Maracalagonis e Sinnai, paesi che da lassù si vedevano bene incastonati fra i colli e che, secondo secolari divisioni, avevano terreni confinanti lungo tutto il crinale di quei monti. La zona in cui si trovava, che in generale si chiamava San Pietro in Paradiso e che apparteneva a Sinnai, poi aveva, dietro qualche curva, porzioni di territorio che appartenevano a Maracalagonis con il nome di “Masongilis”. Il passo lento e cadenzato, sguardi sorridenti lanciati a Dick, Gustavo procedeva rilassato e senza particolare attenzione verso possibili capi di selvaggina perché era ancora distante dalla zona conosciuta e frequentata l’anno prima. Sulla destra rivide una casupola in blocchetti di cemento, diroccata, una sorta di rifugio in ambiente unico, con la canna fumaria di un caminetto che un tempo veniva utilizzato abitualmente. Stava per inerpicarsi verso la sua sinistra, al seguito di Dick, quando dalla parte opposta, ad una quindicina di metri dalla casupola, notò un fenomeno strano. Un gruppo di cani randagi si era radunato attorno ad un macchione di lentisco, tra le alte stoppie ingiallite dall’estate e dalla siccità. Le bestie sembravano puntare qualcosa. Pensando che potesse esserci qualche preda nascosta tra i cespugli spinosi, e che per paura di ferirsi i cani non vi si inoltrassero, il cacciatore cambiò direzione di marcia, impugnò l’arma, tolse la sicura, e si avvicinò con cautela, cercando di non far rumore. Dick si rifiutava di seguirlo, sembrava quasi volesse dirgli di lasciar perdere. Il sospetto e la paura cominciarono a farsi strada pian piano; ne fu attanagliato quando un improvviso cambio di direzione della brezza che soffiava, gli portò alle narici un puzzo nauseabondo, di morte e putrefazione. I cani randagi si erano radunati attorno al cadavere di un uomo. Scacciò la paura e ritrovò freddezza e determinazione: esplose un colpo in aria per allontanare le bestie, legò al guinzaglio il suo cane e si riparò naso e bocca con un fazzoletto. Quel corpo d’uomo riverso in avanti, con la faccia rivolta a destra, in parte divorato e maciullato da voraci animali selvatici, era in decomposizione. Non perse altro tempo. Afferrò il telefono cellulare e digitò il 113. All’agente che gli rispose diede indicazioni estremamente precise e, confermando ancora una volta il profondo senso civico che lo caratterizzava, si dichiarò disponibile ad attendere l’arrivo della pattuglia che sarebbe stata inviata. Lanciò un’ultima occhiata verso quel corpo e trainandosi Dick ritornò verso la sua auto. Si liberò della cartucciera, del fucile, del berretto e cercò di recuperare la serenità profondamente turbata reimmergendosi nei panorami offerti da quel magnifico punto d’osservazione e che ora, con il sole più alto, svelavano altri segreti ad un’osservazione più attenta.
Un’ora dopo arrivò la polizia. Tre agenti della scientifica e altri tre della squadra mobile, guidati dalla dirigente Rosaria Simula, un’energica molisana, di 35 anni, di un metro e 65 d’altezza, robusta ma senza un grammo di grasso, capelli corti, occhi grigi, grande energia e determinazione, instancabile fumatrice, rispettata e temuta dai suoi uomini. Salvaguardava l’immagine esterna della propria femminiltà ostinandosi a indossare sempre e comunque la gonna, mai i pantaloni.
Scesa dalla prima delle due auto utilizzate per raggiungere il luogo del delitto, si avvicinò subito a Gustavo, fermo accanto alla propria macchina, con Dick accucciato ai suoi piedi.
“Buongiorno, è lei che ha telefonato?” gli chiese, mentre accarezzava sulla fronte il setter che si era sollevato sulle zampe anteriori.
“Sì. E poi non mi son più mosso da qui. Non avrei mai pensato di vedere trasformato questo mio rifugio in un luogo di morte”
“Dov’è il corpo? No, non c’è bisogno che ci accompagni.”
I poliziotti, seguendo le indicazioni di Gustavo, raggiunsero la radura e cominciarono ad eseguire tutti i rilevamenti esterni. Senza toccare o modificare in alcun modo la scena del crimine. Tante fotografie del cadavere e della zona circostante, in attesa dell’arrivo del medico legale e del magistrato per poter poi procedere ad un esame accurato dei resti. Un metro e 70, un metro e 75 d’altezza, il torace era ricoperto da una maglietta verde, sollevata fin sopra le scapole, con una lacerazione sul lato sinistro del colletto; un paio di calzoni corti, di quelli con tante tasche; ai piedi scarpe da barca, le gomme delle suole assolutamente pulite e stranamente prive dei lacci. Il braccio sinistro era sotto il corpo bocconi, il braccio destro era disteso perpendicolarmente rispetto al tronco e la mano stringeva un paio d’occhiali da sole, le stanghette strette fra le dita. L’unica aggressione che quel corpo, ridotto in cattive condizioni, mostrava d’aver subita, era da parte di grossi animali selvatici che, pur senza mutilarlo, ne avevano comunque asportato alcune parti molli. Da quell’osservazione esterna gli agenti della scientifica ritennero che il corpo potesse trovarsi lì da qualche tempo, forse da una decina di giorni. Notarono anche che soltanto una ventina di metri più in là c’era un profondo precipizio. Se il cadavere fosse finito là in fondo, difficilmente sarebbe stato ritrovato. Accanto, una cartuccia inesplosa, calibro 7.65 Winchester.
Quando, con l’autorizzazione del magistrato, il corpo fu rimosso, al polso sinistro fu trovato un orologio d’oro Rolex, con le lancette ferme sulle 4.01 e con il datario che indicava il giorno 7. All’anulare sinistro la fede d’oro, con incisi un nome e una data: Flavia 29/06/1999. Nelle tasche anteriori carte di credito, un mazzo di chiavi, un paio d’occhiali da vista, altri oggetti, una patente di guida con una foto in bianco e nero d’un uomo in divisa. Il documento era intestato a Bartolo Balli, 45 anni, residente a Cagliari, ma originario della cittadina toscana di San Miniato. La sorpresa vera fu scoprire la professione di Balli: tenente colonnello della Guardia di Finanza. Gli agenti ne informarono immediatamente la loro dirigente che ne parlò con il magistrato. Concordarono sulla necessità di sottoporre il cadavere ad accurati esami di laboratorio anche per stabilire che quella fosse la vera identità del morto.
Quando il magistrato autorizzò la rimozione del cadavere erano trascorse cinque ore dall’allarme lanciato da Gustavo che, fatto il suo racconto agli inquirenti, poté finalmente rientrare a casa con il suo Dick, giurando a se stesso che non sarebbe mai più tornato a “”Masongilis”.
Rosaria Simula, ripercorrendo la strada verso Cagliari, si sentì preoccupata e galvanizzata, al tempo stesso, per quella che interpretava come una sfida da vincere con i criminali che avevano commesso quell’assassinio. Allertò tutti i suoi uomini perché si mettessero al lavoro. Quanto a lei, nell’attesa dell’esito della perizia necroscopica, si sarebbe messa subito in contatto con i colleghi della Guardia di Finanza.















