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Articolo 21 - Editoriali
Non si può morire in carcere
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di Roberto Martinelli

da Il Messaggero

OGNI qual volta un detenuto si toglie la vita, l'istituzione giustizia subisce la più umiliante delle sconfitte. Qualunque siano le cause che hanno indotto al suicidio. Tanto più grave e imperdonabile è la responsabilità delle istituzioni, quando la persona che decide di farla finita è ancora un presunto innocente. Tale era il sindaco di Roccaraso, così come lo erano e non lo sono più le decine, le centinaia di uomini e donne, giovani e meno giovani, che in passato non ce l'hanno fatta a sopportare il trauma della privazione della libertà, della mutilazione dei loro spazi di vita, del distacco dai loro affetti, dal loro modo di vivere nella società. La lista nera dei suicidi in carcere è lunga e terribile e ogni nuovo episodio riapre vecchie e mai sopite polemiche.
Di fronte ad un gesto tanto drammatico e disperato a nulla vale chiederci il perché sia potuto accadere e, tanto meno, interrogarci sulle presunte responsabilità dell'indagato. Qualcuno si domanderà, ma anche questo è un interrogativo retorico, se gli elementi raccolti dalla pubblica accusa fossero sufficienti a giustificare, alla vigilia di un ferragosto, questa ordinanza di custodia cautelare, in un sistema giustizia che lascia liberi, dopo averli condannati, assassini e rapinatori, mafiosi e corrotti, stupratori e delinquenti abituali. La risposta che verrà dalle inchieste aperte sarà, come di routine, esaustiva e formalmente ineccepibile. Si dirà che ricorrevano le condizioni previste dalla legge per arrestare l'indagato e tutto finirà nel dimenticatoio. Il suicidio del sindaco di Roccaraso andrà solo ad allungare un elenco scomodo e ingombrante, ma indegno di un paese civile.
L'indagato era un politico, accusato di aver intascato tangenti. Così come lo fu, da innocente, Sergio Moroni, il deputato socialista che il 2 settembre di dodici anni fa ricevette un'informazione di garanzia e che, grazie all'immunità parlamentare, evitò il carcere. Nonostante ciò non resse all'umiliazione di sentirsi indagato e si uccise. Due storie diverse e distanti tra loro anni luce. Ma che la lettera di congedo che Moroni scrisse al presidente della Camera consente di rievocare a monito di questa e tante altre storie simili, sconosciute all'opinione pubblica quando il suicida non è un sindaco, ma solo un povero cristo la cui morte in carcere non fa notizia. Moroni si congedò con queste parole: «... quando la parola è flebile non resta che il gesto. Mi auguro solo che questo possa contribuire ad una riflessione più seria e più giusta... e ad evitare che una informazione di garanzia si trasformi in una preventiva sentenza di condanna».
Ebbene, un’ordinanza di custodia cautelare è considerata nel nostro sistema mediatico-giudiziario assai più di una condanna, nonostante che il sessanta per cento delle persone portate a giudizio venga poi scagionato. Per il solo fatto di essere privato della libertà nella fase delle indagini preliminari, il soggetto indossa automaticamente i panni del presunto colpevole che nessuna sentenza di assoluzione gli toglierà mai completamente di dosso. La legge Gozzini e i regolamenti successivi hanno predisposto strumenti teoricamente validi per rendere il carcere vivibile e degno di un paese che un tempo vantava tradizioni di grande civiltà giuridica. Ma la sfida per conseguire questo risultato si è scontrata con la inadeguatezza e la fatiscenza delle strutture, con la carenza del personale e degli operatori specializzati, con tutto ciò che il carcere dovrebbe essere e non è.
Se oggi è sotto accusa il carcere di Sulmona, ieri lo è stato quello di Firenze e ieri l'altro quello di Roma, di Napoli, di Cagliari, di Iglesias. Senza escludere quelli cosiddetti modello di Opera o di Rebibbia. Ove non tutto è degrado e abbandono, ed anzi molto viene fatto per aiutare il detenuto a convivere con la realtà carceraria. Ma molto resta ancora da fare e non solo da parte di chi è preposto alla amministrazione penitenziaria, ma anche da parte dell'autorità giudiziaria che deve essere in grado di capire fino a che punto la privazione della libertà di un individuo può influire sulla sua psiche fino a indurlo ad un gesto tanto disperato. Di fronte al quale la funzione giurisdizionale perde credibilità e alimenta la sfiducia del cittadino nell'operato di quei magistrati che esercitano con eccessiva discrezionalità l'azione penale.

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