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In crisi la “politica amorale” berlusconiana. Ma non è come nel ’92
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di Gianni Rossi

In crisi la “politica amorale” berlusconiana. Ma non è come nel ’92

La sigla del “Patto per la crescita” da parte di quasi tutte le parti sociali, tranne il sindacato “collaterale al governo” Uil di Angeletti, è un fatto positivo in questo clima di fine regime. Discontinuità, credibilità, responsabilità, le parole cardine di quest’appello, che segna una tappa importante verso la fine del regime del Sultano di Arcore. Al tramonto del berlusconismo, infatti, assistiamo ad un sussulto di responsabilità civica e di volontà politica anche di quei settori che da 17 anni sono stati alla base delle fortune di Berlusconi e della stessa Lega di Bossi.
C’è un vento nuovo che comincia a soffiare sull’Italia. Ma non siamo come nel 1992, ai tempi dell’iper-svalutazione della Lira, della maxi-manovra lacrime e sangue del governo Amato, dell’accordo in quel terribile luglio sul “costo del lavoro” con i sindacati confederali, che portò più tardi alla formazione del governo “tecnico” del governatore Ciampi e alla sigla della storica intesa sulla “Concertazione” del luglio 1993. Il tasso d’inflazione allora era il doppio di oggi, al 5,4% anziché 2,7%, la Lira era agganciata al “Serpentone monetario” dello SME, libera di fluttuare e di “giocare” con le svalutazioni controllate per poter dare ossigeno alle nostre esportazioni. Gli italiani erano “cicale” rispetto ai parametri reali della finanza pubblica. Il  tenore di vita, compreso il valore degli stipendi, era tra i più alti d’Europa, il costo del lavoro superiore alla media continentale, ma la pressione fiscale ancora sopportabile. La disoccupazione endemica, ma i “senza lavoro” trovavano occupazione con una certa facilità. Il deficit di bilancio era certo alto e il debito pubblico volava verso il 118%, rispetto al 50% circa dei principali paesi europei (Germania, Francia, Gran Bretagna). L’attacco della speculazione internazionale colpì noi e la Gran Bretagna (uno dei promotori fu il “finanziere rosso”, l’americano di origini ungheresi George Soros, che oggi pentito dice di volersi ritirare dagli affari!), ma i cosiddetti “fondamentali” dell’economia reale erano intonati allo sviluppo e alla crescita. Si era in piena era “Tangentopoli” e iniziava la crisi del sistema dei partiti tradizionali.
Chi oggi, come fa Giannini su Repubblica, cerca di equiparare quel periodo all’attuale, dimentica i danni che il Ventennio berlusconiano ha prodotto e, tra l’altro, le origini della crisi economica e finanziaria mondiale (non quindi locale, come allora). In questi circa 20 anni gli istituti finanziari, le banche, come l’imprenditoria che si riconosce in Confindustria o nelle altre associazioni di categoria, hanno optato per la “finanziarizzazione” del capitale, anziché reinvestire gli utili o i capitali freschi in ricerca e sviluppo (tranne qualche rarissima eccezione, tipo la Finmeccanica pubblica o la Brembo privata, per esempio), nell’aumento dell’occupazione, nella defiscalizzazione degli oneri sociali, nell’incremento degli stipendi. Le abituali “formiche” del capitalismo italiano si sono scoperte sotto la supremazia culturale e politico-mediatica di Berlusconi in “cicale”, tutte dedite agli investimenti “mordi e fuggi”,  a suo tempo tenacemente contrari all’ingresso nell’Euro (spalleggiati in questa suicida battaglia da Berlusconi, Bossi e gran parte della Confindustria).
Oggi i nodi sono arrivati al pettine: “il cavallo dell’economia non beve più”, anche davanti ad una fontana zampillante di acqua rivitalizzante. Tutto il “sistema Italia” è come inceppato: le banche, solide secondo i criteri europei, non sanno e non vogliono fornire crediti all’imprenditoria , almeno che non siano i “soliti noti”, per poi scoprirsi creditori senza possibilità di esigere i soldi dati in prestito (dai casi Cirio, Parmalat alla crisi del gruppo Ligresti di queste settimane). I crediti al consumo soffrono di tassi altissimi e le famiglie, già strozzate dalle tasse e dai bassi stipendi, si vedono anche pressate da mutui per le case così esosi da non poterli più onorare. E che dire della disoccupazione? Chi esce dal ciclo produttivo, se fortunato, entra nella Via Crucis delle varie casse integrazione fino ai prepensionamenti; chi invece, cerca un primo lavoro, come milioni e milioni di giovani (un “categoria” sociologica che comprende i senza lavoro dai 18 fino ai 40 anni!), tutt’al più trova un stage o un contratto così flessibile da guadagnare in media sui 500 euro al mese. I sindacati sono più divisi di prima, la Concertazione è stata sepolta, quasi 9 milioni di italiani sono sotto la soglia di povertà, ma l’evasione e l’elusione fiscale sono ancora lontane dall’essere debellate. Le pensioni, dopo le 2 riforme drastiche, diminuiscono del loro valore rispetto all’inflazione programmata e le nuove generazioni se le potranno forse sognare un giorno.
Questi sono i guasti di una classe dirigente che ha dimenticato gli interessi generali del paese, di una classe politica intera ormai persa negli intrighi di “palazzo”, nel tenersi stretto le poltrone, siano di governo siano solo della propria organizzazione. Quest’appello è certo uno scatto di responsabilità, una voglia di voltar pagina. Ma chi e come dovrebbe ascoltare “il grido di dolore” che proviene dalle cosiddette parti sociali?Gente nuova proveniente però sempre della vecchia coalizione di centrodestra al governo, facendo fuori prima Berlusconi e Bossi? Una “Grosse Koalition” per riformare la legge elettorale e poi andare a votare nel 2012? Un governo tecnico a guida Monti oppure Amato: un binomio "dejà vu”? Questa classe dirigente, come la si rigiri e la si guardi, è vecchia e decotta: i giovani, le donne, i precari, i disoccupati, i pensionati, le famiglie se ne sono accorte, esprimono il loro dissenso alla politica tradizionale sulla Rete, organizzano manifestazioni e proteste autonomamente dai partiti. Non siamo ancora alle proteste di massa, anche dai toni forti, ma l’autunno potrebbe riservarci sorprese preoccupanti!
Nei primi anni Novanta, Emma Marcegaglia era a capo dei Giovani di Confindustria, era filo-Ulivo e si batteva per l’Euro contro i “Big” della sua stessa organizzazione; ora è lei la presidente della Confindustria, è passata dal berlusconismo a posizioni scettiche, seppure tenacemente neo-liberista. E’ il “nuovo che avanza”? E che dire di Confcommercio, che ha spartito tutti i privilegi forniti dal berlusconismo in 17 anni di regime? E i banchieri dell’ABI, che hanno accettato la presenza della “lunga mano” della politica attraverso le Fondazioni e hanno continuato a fare “trust” contro la libera concorrenza, finanziando operazioni spesso “benedette” dai governi? E’ un bene che la CISL, collaterale ai governi Berlusconi, fino a farsi punta più avanzata delle politiche antiunitarie e di stravolgimento dello Statuto dei Lavoratori, insieme alla UIL, adesso si scopra critica al regime come folgorata sulla “strada per Damasco”? Venti anni fa il sindacato di destra si chiamava CISNAL, era formata da nostalgici dei “fasci littori”, poi dal ’96 si è trasformata in UGL, si è in parte affrancata dal collateralismo con la destra e ha imboccato una via unitaria e autonoma: oggi firma anche lei l’accordo con CGIL e CISL.
Noi siamo dell’idea che la politica debba ritrovare una sua etica, rigenerarsi dalla “amoralità” in cui è sprofondata, così come anche settori  dei vertici delle parti sociali. Ben venga il “Patto per la crescita”, ma l’atto successivo deve essere il cambiamento radicale delle regole della politica e dei vertici dei partiti, che stanno “vivacchiando” in Parlamento. Prima che un’altra onda di inchieste stile “Tangentopoli” travolga come uno tsunami tutti i partiti, da destra a sinistra. Anche perché, dopo le macerie, ci vorrà molto tempo affinchè le nuove fondamenta delle istituzioni democratiche ritornino a veder la luce.


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